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venerdì 31 agosto 2018

Saigon e così sia

Tra il 1967 e il 1968 Oriana Fallaci visitò il Vietnam del Sud come inviata di guerra, usufruendo di documenti, divise e mezzi dell'esercito Usa. Di quell'esperienza è frutto Niente e così sia, il libro in cui raccontò il massacro del conflitto in Indocina.
Un anno dopo era di nuovo lì, sul fronte opposto, per conoscere quel popolo che aveva ammirato e desiderato incontrare, gli abitanti del Vietnam del Nord, visti fino ad allora solo cadaveri.
Da quel viaggio prende vita Saigon e così sia, libro pubblicato postumo, che la stessa Oriana aveva voluto e curato e che, a differenza del precedente, non è una diario della spedizione, ma una raccolta di articoli pubblicati all'epoca sull'Europeo che raccontano la visita della Fallaci ad Hanoi a seguito di una delegazione di donne italiane, il successivo ingresso nella Cambogia, durante la fase di allargamento del conflitto in Indocina, i negoziati statunitensi prima del disimpegno dal Vietnam e la caduta finale di Saigon.
Uno specchio accurato e documentato delle ultime fasi della guerra in Vietnam che qui, attraverso il resoconto delle trattative di Kissinger e la ricostruzione della vita di alcuni dei suoi protagonisti, da Ho Chi Min al presidente Thieu, sembra mostrarsi appieno nel suo significato. Si capisce così come una giusta battaglia per l'indipendenza abbia assunto infine l'aspetto di un regime oppressivo.
Se infatti nel 1968 per la gran parte degli occidentali le origini del conflitto erano note (o almeno avrebbero dovuto esserlo), per noi che l'abbiamo conosciuto attraverso i film e le scarne citazioni sui libri di storia, rimane solo una guerra imperialista, inutile e sanguinosa, nonché la prima sconfitta per la potenza americana. Vale la pena quindi affrontare questa lettura, per comprendere finalmente questa guerra (e magari per evitare altri errori simili).
Molto bella la prima parte del libro, quella che racconta appunto del viaggio ad Hanoi e nelle province limitrofe. La Fallaci, che aveva ammirato la tenacia dei nordvietnamiti, ne rimane subito delusa:

E' assai più facile amarli da lontano o dall'altra parte della barricata. Forse li hai amati troppo, li hai pianti troppo, li hai idealizzati troppo. Visti da vicino, non potevano che ferirti.

Non è solo la guerra, spiega la Fallaci, la guerra c'era anche Saigon, eppure Saigon era una città che brulicava di vita, la gente riusciva ancora a sorridere. Ad Hanoi tutto è tetro, la città le facce della gente, e si vive in una sorta di rigore monacale che non impedisce solo la libertà di parola o di pensiero, ma la vita stessa.

Hanoi ricorda un cupo convento dove ciascuno è impegnato a mortificarsi [...]. Non c'è un locale di divertimento, solo cinematografi sporchi che proiettano filmucci di propaganda o di guerra, non sorprendi mai due che si baciano [...] e le donne [...] non fanno mai nulla per sembrare graziose.

Verrebbe voglia di urlare: datti un colpo di pettine, perbacco, datti un po' di rossetto, non andrai mica all'inferno se lo fai!

Secondo la Fallaci la spiegazione è nell'esempio dato dall'austero Ho Chi Min, di cui, nella parte finale del libro, la giornalista traccia un ritratto magistrale (leggetelo se, come per me, Ho Chi Min è solo il nome polveroso di un vecchio leader marxista)
Come sempre, quello che ho apprezzato è l'accuratezza con cui la Fallaci affronta i suoi testi. Niente è lasciato al caso e ogni parola è frutto di accorte documentazioni e di testimonianze dirette. Oriana non si fa guidare dal pregiudizio o dal sentito dire, vuole essere in prima linea, sfatare (o confermare) miti e leggende ed è capace di ammettere l'errore, senza farsi accecare dall'ideologia o dal proprio ego.
Da ammirare il coraggio mostrato dalla giornalista nel viaggio ad Hanoi, la faccia tosta nel riproporre domande che le erano state espressamente vietate, nel fotografare quel che era coperto da segreto, nel nascondere i rullini fotografici proibiti.
Alla censura e ai comunicati stile MinCulPop di Hanoi (vedere l'intervista al generale Giap), la Fallaci oppone il coraggio della verità, abituata com'era a quella "libertà di movimento che gli americani ti danno anche se parli male di loro".
Amarissimo il giudizio finale della giornalista che, pur comprendendo le motivazioni della guerra, non trova giustificazioni, né valori difendibili da nessun lato della barricata.

Sì, il male è equamente diviso in quella guerra: gli elementari diritti delle creature sono infranti sia a Saigon che ad Hanoi, da nessuna parte della barricata v'è la risposta alle nostre speranze. E con tale conclusione, inevitabile, amara, chiudo la mia testimonianza sul Nord Vietnam. Oltre che una testimonianza, una conferma che non basta parlar di giustizia per essere giusti, di civiltà per essere civili, di umanesimo per essere umani.

E mentre la guerra finisce e la cortina del silenzio cala su Saigon chiudendo a chiave un popolo costretto a tacere e soffrire, le parole della Fallaci andrebbero impresse su tutti i libri di storia. Chissà che possa no aiutarci a essere uomini, e donne, migliori.

Saigon e così sia di Oriana Fallaci, Best Bur

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

giovedì 30 agosto 2018

14 agosto

E' proprio quando, nel giorno della vigilia di Ferragosto, vorresti sfogare il tuo nervosismo dovuto alla folla, al caos, al traffico, alla maleducazione dei turisti, che la vita ti riporta con i piedi per terra, a guardare tutto ciò da lontano, come con un cannocchiale, e a considerare quel che è veramente importante.
Ci pensa una telefonata, che a quell'ora qualcosa deve essere successo, ma a quelle parole, impossibili, incredibili, che però non possono essere dette a casaccio, non ci avresti mai pensato.
E ti metti in macchina, un peso sulla bocca dello stomaco e il desiderio che si tratti di un errore. Adesso ti richiamano e ti dicono che si sono sbagliati, oppure arrivi lì e constati con i tuoi occhi che c'è stato un malinteso.
Lei tornerà ad accoglierti col suo sorriso.
Senti ancora la sua voce.
Ed entri in quella casa dove sei entrata centinaia di volte da quand'eri bambina, sempre uguale, immutata. Di una vecchiezza scomoda e fuori moda. Ma quel che per qualcuno è da buttare, per qualcun altro è una reggia.
Entri e ti tornano in mente tutte le volte che sei passata da quella porta a vetri. Soprattutto le ultime, che da quando vivi al paesello son quattro passi da casa tua.
Quei quattro passi che non farai più.
E pensi.
Perché ogni oggetto è un ricordo.
Pensi all'ultima settimana prima di andare al mare. "Ci vediamo prima che partiate?". Sì, avevi risposto, e in effetti vi eravate riviste, ma quasi per caso. L'ultima volta che sei stata lì, non sei nemmeno entrata. C'erano i bambini.
I bambini che lei amava tanto ed accoglieva con "Nah, chi viene? Chi viene?" appena li riconosceva dai vetri della porta.
Senti ancora la sua voce.
"Beh, la Pizzupia" diceva alla Lolla, che di quel nome se ne faceva un vanto. "Belli, belli della zia" ripeteva, prima di essere coinvolta in una partita di assopigliatutto o in una passeggiata fino al pollaio.
Ed ecco, arrivano i rimpianti per tutte le visite non fatte o fatte di fretta. E il conforto, meno male, di quelle più lunghe. Delle parole scambiate, del tempo trascorso assieme. Dell'esserci stata negli ultimi mesi più duri, quelli del lutto e della malattia. Dell'aver attraversato insieme il reparto di radioterapia, dove una dottoressa gentile e gagliarda che l'aveva presa in cura, era rimasta abbagliata dalla sua tempra e dalla sua mente e aveva decretato che la malattia avrebbe avuto un decorso lento e, data l'età, se ne sarebbe andata per qualche altro motivo.
Chi lo sa, forse aveva ragione.
Ma nessuno pensava sarebbe successo così presto. Proprio lei che sembrava inossidabile. Che c'era sempre stata e forse avrebbe continuato a esistere dopo tutti noi. Che, nata e vissuta nella casa di suo nonno, padre di dieci figli, era la memoria storica di una famiglia di decine di nipoti. E tutto ricordava di quel passato.
Resta il rimpianto di quel che avrei voluto ancora chiederle.
Delle ricette che non ho fatto in tempo a farmi spiegare.
Delle cose che avevamo rimandato a dopo l'estate, impreparate, entrambe, al fatto che un dopo non ci sarebbe stato.
Resta una pianta di cappero fatta preparare da lei per me, per il mio giardino. Da piantare in autunno.
Gli alberi di agrumi del suo aranceto, tornati a produrre dopo due anni di inattività, di cui aspettavamo il raccolto natalizio.
Resta un dolore alla bocca dello stomaco che torna a colpire ogni volta che la vita va in stand by e ti rendi conto che è successo, ed è tutto vero.

Te ne sei andata come hai sempre vissuto, in una vigilia di Ferragosto, con il paesello semideserto, per non destare troppo rumore.
Te ne sei andata come hai voluto. Nella tua casa, tra le tue cose, autosufficiente, autonoma.
Te ne sei andata, ma ancora non mi sembra vero.
Ogni volta che chiudo gli occhi, a me sembra di sentire ancora la tua voce.
"Nah, chi viene, chi viene?".

C'è un prima e c'è un dopo. E incredibilmente, non coincidono più.