Pagine

martedì 30 luglio 2019

All'ufficio postale

All'ufficio postale ci sono solo due addetti agli sportelli.
Il primo, occhiali quadrati e capelli grigi con un taglio che una mia amica definirebbe da abbonato, gestisce praticamente tutto: raccomandate, pacchi, pagamenti. Anche la porta che separa la sala per il pubblico e il backoffice è roba sua. Di tanto in tanto (molto spesso) quando qualcosa o qualcuno deve passare, si alza, aziona la prima porta e, alla chiusura, aziona la seconda. Lentamente. Poi ritorna al suo posto. A continuare a servire il cliente.
Intanto il collega è ostaggio di tre donne e un uomo il quale, forse in un tentativo di mediazione, spiega che la ragazza "è registrata alla Comune di Isère, perché è nata lì, alla Comune di Isère".
Molta gente entra, prende il biglietto, confronta il numero con quello servito e desiste.
Lentamente (che lì velocemente sarebbe un controsenso) una sensazione di déjà-vu mi assale.
Una donna con un pacco con su scritto Tim entra, chiede se come al solito c'è un impiegato addetto solo ai pacchi e sentendo che no, deve fare tutta la fila rimane perplessa. "E' come a dicembre" commenta una sua conoscente, evidentemente sottolineando analogie cabalistiche che si verificano in tempo di vacanze.
La donna col pacco desiste.
Dal backoffice, dove il personale pullula più che al front office, una guardia giurata esce nella sala. Il solito impiegato lascia il suo lavoro, apre la prima porta, poi la seconda. La guardia giurata salta la fila e dà all'impiegato un bollettino, paga, poi ritorna nel retro. Apri la prima porta, apri la seconda porta.
I quattro della Comune sono ancora lì.
Una signora ha un pacco voluminoso da spedire. Apriti cielo (e apriti porta). Informazione sui costi, pesa di qua, conta di là, che manco le valigie al banco della Rayanair.
Una signora addetta ai finanziamenti passa nel retro. Apri la prima porta, apri la seconda porta. La signora esce. Apri, riapri.
Sempre di più tutto questo mi ricorda qualcosa.
Finalmente il secondo impiegato si libera. Ma non chiama nessun numero.
Di nuovo l'addetta ai finanziamenti deve andare nel retro. Entra. Poi esce.
Chiamano il 42, tra due numeri tocca a me. Che bello, il 42 non c'è, ma, aspetta, l'impiegato invita allo sportello una signora arrivata da poco che chiedeva se per la sua operazione ci fosse da fare tutta la fila...adesso ho capito dove mi trovo.
E poi, ecco il 44. L'impiegato mi sorride, mi dice qualcosa sul perché di tanta attesa, annuisco senza capire una parola, che tra il vocio e i doppi vetri è impresa ardua. E poi diciamocelo, a questo punto mi interessa solo pagare e andar via.
Il castello di Ussè che ha ispirato la favola della Bella addormentata
Ieri mattina sono andata a pagare alcune bollette ché, da quando è arrivata l'estate, al paesello il postino arriva a settimane alterne e così ne abbiamo trovate tre tutte assieme, come i pacchi sotto l'albero la mattina di Natale.
Siccome nel frattempo siamo al paesino, ho pensato di usufruire dell'ufficio postale del comune vicino, che è un po' più grande e hai visto mai che ci si sbriga prima, ma evidentemente la mareggiata di scirocco ha ispirato lo stesso pensiero alle 14 persone davanti a me e alle altrettante arrivate subito dopo.
Tutti i paesi di questo territorio sono paesi in cui, pur essendoci Internet, Amazon (l'ufficio postale era zeppo di pacchi con il sorriso) e turisti a profusione, qualcosa è rimasto bloccato, fermo nel tempo. Sono una versione del regno della Bella addormentata ambientato nella Gagliano di Cristo si è fermati a Eboli.
E comunque non era il libro di Carlo Levi quello a cui l'attesa mi ha fatto pensare. Il déjà-vu è molto più prosaico. Un'ora e passa di fila allo sportello della posta e mi sembra che il bradipo della motorizzazione di Zootropolis sia lì davanti a me.

giovedì 25 luglio 2019

Crescere

Un amico fraterno, un cugino, che da un giorno all'altro non lo cerca più e, quando si vedono, non riesce ad andare oltre a un saluto svogliato a sguardo spento. Che io lo so che non è colpa sua, ma fa male lo stesso quando, a dieci anni, vedi qualcuno che ti era così vicino allontanarsi all'improvviso senza motivo.
I compagni che, da quando hanno il telefonino, "sono più cattivi" e sottolineano, non volendo farlo stare male ma riuscendoci ugualmente, che noi, i suoi genitori, lo trattiamo come un bambino di tre anni perché non lo mandiamo in giro da solo e lo controlliamo. E probabilmente perché adesso è l'unico senza cellulare.
Il compagno del cuore che l'anno prossimo non sarà più in classe con lui, perché Ieie cambierà scuola e paese, e sebbene viva a pochi metri da noi, per loro è come un addio definitivo sul ponte del Titanic.

Crescere è veramente difficile, lo è sempre stato, ma mi pare che a ogni generazione il coefficiente di difficoltà raddoppi. Perché sebbene ricordi gli ostacoli della mia adolescenza, posso dire che quel che mi ha dato in termini di maturità, nuove esperienze e amicizie è molto di più.
Eppure le ho avute anch'io le amiche d'infanzia perse per strada. Quelle della porta accanto, cresciute con me, con le quali si erano spartiti giochi, cibo e sonno che a un certo punto hanno ricevuto libertà a me non concesse. D'improvviso le ho perse. Ho sofferto, credo. Le ho rimpiazzate. E oggi conservo un bel ricordo della mia infanzia e ancor più bello della mia adolescenza.
Vorrei guardare al prossimo anno di Ieie con l'entusiasmo che merita, con la prospettiva che sarà ricco di bei cambiamenti, poi mi scruto attorno e in effetti ho paura. Perché forse è vero che il problema sono io. Io che frappongo le mie ansie materne alla sua meritata libertà. Io che lo costringo a essere accompagnato, quando invece potrebbe tranquillamente spostarsi da solo.
Io che lo tratto come un bambino di tre anni quando in effetti ne ha dieci.
Io che vorrei che guardasse il mondo con i suoi occhi e imparasse a farsi una (sua) opinione, anziché ipnotizzare corpo e mente davanti a uno schermo solo per fare quello che fanno tutti gli altri.
Perché il bisogno di sentirsi accettati, di essere uguali agli altri, è normale a quell'età. Ma qui mi sembra che il rischio sia un'omologazione senza precedenti.

E poi, un pomeriggio per caso, incontri una mamma di un'altra città di un'altra provincia. Suo figlio, che è un anno più grande, comincia a giocare col tuo e scopri che ha vissuto la stessa storia. Ha chiesto con insistenza di andare a scuola da solo, con la minaccia di smettere di studiare, perché i compagni lo prendevano in giro per il fatto di essere accompagnato dal papà. E' uno dei pochi in classe senza cellulare e per questo, a volte, resta escluso dagli incontri extra scolastici. Quando va in pizzeria con gli amici non sa cosa fare, perché gli altri passano il tempo giocando on line col telefono.
E allora, trovando un altro essere madre che la pensa come te, ti convinci che non sei proprio così strana. O forse siete strane in due.
O forse c'è una terza via.
Perché la stessa madre ti narra la disavventura della figlia decenne che un giorno è tornata dal campo scuola entusiasta perché delle bambine più grandi le avevano scattato bellissime foto col loro cellulare, invitando quindi la madre ad andarle a vedere. Figurarsi la sorpresa della mamma quando ha scoperto che le foto erano state caricate su un profilo Instagram aperto dalle ragazzine a nome della figlia, falsificandone la data di nascita. E il problema non era neanche quello, ma che in poche ore detto profilo avesse già raccolto dieci follower adulti di sesso maschile.
Allora forse, non sono matta o paranoica, ma semplicemente prudente, perché prima di buttare mio figlio in un mondo dove c'è chi è pronto a spolparlo come un ossicino, vorrei che fosse quantomeno preparato. E meno ingenuo di quanto sia adesso.
Che poi lo so che sul cellulare prima o poi cederò.
Ma, ecco, cederò a modo mio.

venerdì 19 luglio 2019

L'ombra del vento

Daniel Sempere ha solo dieci anni quando suo padre lo porta per la prima volta nel Cimitero dei libri dimenticati, un misterioso labirinto nel Raval di Barcellona, dove vengono custoditi i titoli che altrimenti nessuno ricorderebbe più.
E' così che il romanzo L'ombra del vento entra con la prepotenza della scrittura del suo autore, Juliàn Carax, nei pensieri di Daniel, determinando il corso della sua vita.
In cerca di notizie sul misterioso scrittore, Daniel conosce infatti il libraio Barcelò e la sua bella nipote Clara destinata a diventare il primo, sfortunato amore del ragazzo. 
Anni dopo, per colpa dello stesso romanzo, o meglio per salvarlo dalle mire di un inquietante individuo che punta a distruggere quell'unica copia superstite, Daniel si troverà a troncare ogni rapporto con Clara e a stringere amicizia con l'istrionico e fedele Firmìn.
Sarà proprio questo strambo e impareggiabile personaggio ad affiancare Daniel nella ricerca che più di tutto anima il cuore del giovane: scoprire chi era e che fine ha fatto Juliàn Carax e chi è l'uomo che vuole distruggerne tutte le opere.
In un viaggio che si snoda tra presente e passato, andando dai sottotetti fatiscenti di Parigi alle ville fantasmagoriche sulla salita del Tibidabo, Daniel e Firmìn incontreranno amici e conoscenti di Juliàn e cercheranno di ricostruire la sua triste storia come un puzzle dove tanti sono i pezzi mancanti e ancor di più quelli che non combaciano. Perché spesso le cose, e le persone, non sono quelle che sembrano.
Le risposte, non tutte inimmaginabili, arriveranno in una finale dove, dopo essere stato a lungo paragonato a Juliàn, le vite di Daniel e dello scrittore correranno su binari paralleli per poi allontanarsi per sempre.
Le ville sulla salita verso il Tibidabo
Diciassette anni dopo la sua pubblicazione e l'immenso successo seguito, sono riuscita finalmente a leggere L'ombra del vento. Un ritardo imputabile a un altro romanzo di Zafón, Il gioco dell'angelo, che aveva avuto il pregio di risucchiarmi in un groviglio di colpi di scena e in un aumento della tensione sfociati, però, in un finale decisamente incomprensibile. Scottata da cotanta delusione, ci ho messo un po' a decidermi a ridare fiducia a Zafón e alla sua trilogia del Cimitero dei libri dimenticati (L'ombra del vento è il primo di tre e anche Il gioco dell'angelo, che rappresenta una specie di prequel, ha dei punti di contatto con la serie).
Stavolta non sono rimasta delusa. L'ombra del vento ha saputo innanzitutto riportarmi in una città che ho avuto la fortuna di vedere più volte, Barcellona, anche se qui, anziché presentarsi nella sua veste allegra e colorata, la vediamo sfoggiare colori cupi, il grigio del mare autunnale, i cieli sfumati di ruggine, l'anima triste e smorta di una città appena uscita dagli orrori della guerra. Eppure basta un giro sul tram blu verso il Tibidabo o una passeggiata nella Barceloneta per riassaporarne l'anima più seducente.
Come se non bastasse, è un libro che parla di libri e dell'amore per essi giacché, come viene spesso ripetuto, i libri sono specchi in cui troviamo ciò che abbiamo dentro.
A questo si aggiunga una storia i cui personaggi son dipinti con poche, vivide pennellate e che ti si appiccica addosso con una scrittura dialogica che unisce le sfumature del racconto gotico a quelle del giallo, non senza una forte impennata emotiva proprio sul finale.
Un lettore attento e avvezzo al genere, secondo me riuscirà a risolvere alcuni misteri, tuttavia questo non toglierà fascino o pathos al racconto, tutt'altro.
Restano, alla fine, la soddisfazione per una conclusione degna e (stavolta) comprensibile e la voglia di tornare quanto prima a Barcellona nei posti che fanno da sfondo alle vite di Daniel e Juliàn.

L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón, Mondadori, traduzione di Lia Sezzi

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma  

martedì 16 luglio 2019

Italia-Francia: quel che non ti aspetti varcando le Alpi

Una delle cose che mi piace fare di più quando vado all'estero, è guardarmi intorno e analizzare usi e costumi in voga nelle altre parti del mondo. Così facendo è naturale che scatti il confronto, ma ritengo di essere sufficientemente imparziale per non cadere nel solito cliché dell'italiano che disprezza il caffè straniero o ne rifiuta la cucina perché la pasta mica sanno cos'è o non si arrende all'idea che non troverà un bidet nel bagno manco a pagarlo oro. Cioè, non che alcuni di questi pensieri non mi sfiorino (specialmente sul caffè, ho delle teorie molto restrittive), ma sono dell'idea che quando vai a casa altrui non puoi pretendere di trovare le tue stesse abitudini. Tanto vale calarsi nella cultura che ti ospita e sperimentare.
Questo tipo di approccio mi ha permesso di evidenziare gli aspetti positivi che di volta in volta ho incontrato all'estero, prima di tutto il fatto che spesso le città straniere sono molto più pulite e ordinate delle nostre. Anche nella Loira, la gran parte dei villaggi (e città) si distinguevano per essere talmente impeccabili da parere finti.
Blois, tipico borgo della Loira
Ma, ordine a parte, ci sono stati altri aspetti che mi hanno fatto notare, con orgoglio, che anche noi italiani, su alcune cose, siamo più bravi.
1 - Che tu vada in un albergo o in una casa vacanza, in Francia nessuno ti chiederà un documento di identità. Puoi prenotare anche a nome di un noto terrorista, tanto non verranno a controllare. Oppure puoi essere un noto terrorista e prenotare a nome di Mario Rossi che forse è anche meglio. E se sei in fuga con dei bambini rapiti, un albergo in Francia è il posto migliore dove rifugiarti, perché non verificheranno mai che siano i tuoi figli.
In Italia questo non succede, e dopo tutti gli attentati che ci sono stati, non me l'aspettavo.
2 - Qualcuno dovrebbe dire ai francesi che nell'era di Booking &Co. lavorare nel turismo e avere una conoscenza elementare (nel senso uguale a quella di un bambino delle elementari), dell'inglese, non ti rende superiore, né fa grandeur, ma ti rende solo molto ignorante. E ridicolo. Soprattutto se un bambino di dieci anni si diverte a mettere in difficoltà i camerieri con un Can I have some bread please?.
Perché sarà pure vero che anche in Italia siamo lontani dagli standard di conoscenza dell'inglese del Nord Europa, però  devo ammettere che da parte di ristoranti e negozi nostrani ho visto un maggior impegno di quello riscontrato in Francia.
E poi, lasciatemelo dire, l'inglese va pronunciato all'inglese. Ché se mi sento dire che sono orlì a me mi viene da pensare all'aeroporto, mica che sono in anticipo.
3 - Qui non è questione di bidet, urge fare qualcosa, subito, per i bagni francesi. A parte che loro la chiamano salle des bains e sono dei buchi, ma il fatto che siano spesso senza finestre e aeratori e con i tubi del wc che corrono lungo i muri, li rende veramente inguardabili. Chiamate Andrea Castrignano, s'il vous plait.
Ma siccome ho detto che sono imparziale, bisogna dare a Cesare, o in questo caso forse è meglio dire a Vercingetorige quel che, va be' ci siamo capiti.
Se c'è una cosa che ho apprezzato tantissimo dei francesi è la loro scarsa dipendenza dagli smartphone. Vai a cena fuori e li vedi, adulti, ragazzi e bambini, che parlano e ridono tra di loro. I telefoni sono lì sul tavolo, ma nessuno, e dico nessuno, si isola in una bolla a spulciare lo schermo. Né mi è capitato di vedere pargoli intenti a mangiare sotto l'effetto ipnotico di You Tube. Andate in un qualsiasi locale italiano e ditemi se la scena è la stessa.
E aggiungo, tra l'altro, che a Clos Lucet ho analizzato tutte le scolaresche di età compresa tra gli undici e i tredici anni in gita nel parco e non ho visto un solo alunno, neanche per un minuto, armeggiare con un cellulare, neppure quando gli insegnanti li lasciavano girare in libertà. E il confronto con l'Italia stavolta lo risparmio proprio.
Il parco di Clos Lucet con le invenzioni di Leonardo a uso e consumo dei bambini
Ma, come si dice, tutto il mondo è paese e noi italiani, si sa, siamo quelli spaghettipizzamandolino e...mafia, in altre parole universalmente noti come furbacchioni matricolati. Ebbene, sappiatelo, i francesi non sono da meno.
Abbiamo prenotato gli alloggi per la nostra vacanza tramite Booking (e fin qui nulla di nuovo). A Tours, dove avevamo scelto un hotel, scopriamo che la nostra sistemazione è in realtà un albergo a conduzione familiare, in pratica una casa trasformata in albergo e gestita dai suoi proprietari e anche qui nulla di eclatante, poiché ho letto che questa pratica è abbastanza comune in Francia.
Ad accoglierci una signora di mezza età in un salottino/reception decorato con ritratti di famiglia, poltrone di legno e stoffa, mensole e ninnoli in una scena che mi fa pensare tanto a Miss Marple. Sarà che siamo italiani, e non si fida, ma prima di condurci alla camera ci chiede di saldare in anticipo le tre notti per la cifra pattuita al momento della prenotazione. Diamo una carta di credito, la inserisce nel Pos e ci dice che, purtroppo, non va, mostrandoci lo scontrino della mancata transazione. Stessa storia col bancomat, al che io e mio marito ci guardiamo perplessi perché quelle carte, poche ore prima, in autostrada, avevano funzionato, ma comunque risolviamo col contante.
Figurarsi la nostra sorpresa quando, tornati in Italia, mio marito controlla la posta elettronica e trova una mail con cui Booking, alcuni giorni prima, ci avvisava che l'albergo di Tours da noi prenotato, aveva modificato il prezzo pattuito tagliandolo di quasi il 50%.
Cos'era successo? La dolce vecchietta aveva inviato a Booking una richiesta di modifica del prezzo e, confidando che noi ne sapessimo nulla, ci ha fatto pagare l'importo per intero, in contanti, senza lasciarci uno straccio di ricevuta in modo da consegnare a Booking una percentuale più bassa.
Ecco, in tanti anni di viaggi con Booking, in Italia e fuori, una furbata come questa io non l'avevo mai vista e è proprio il caso di dire che, in materia di furbizia, pare proprio che  i cugini francesi abbiano qualcosa da insegnarci.


venerdì 12 luglio 2019

Flawed

Celestine North è una ragazza che tutti definirebbero per bene, per non dire perfetta. Carina, studiosa, educata, ligia al dovere e rispettosa delle regole, perché Celestine sa sempre distinguere tra giusto e sbagliato e se così non fosse non sarebbe tra i più strenui sostenitori della Gilda, il tribunale "morale" del suo Paese che ormai da decenni scova e sanziona i Flawed, ovvero i fallati, coloro che si sono macchiati di un reato etico e che per questo sono sottoposti a una serie di limitazioni e vanno in giro con una F marchiata a fuoco come monito per le persone per bene.
Eppure, sarà proprio il suo senso del dovere a tradirla e farla finire dall'altro lato della barricata, tra i fallati, e a niente varrà il fatto che uno dei giudici della Gilda, Bosco Crevan, sia il padre del suo fidanzato.
Intrappolata tra giochi di potere e trame politiche, Celestine diventerà un tragico capro espiatorio e sarà condannata dalla Gilda a una pena senza precedenti. Trattata come un'appestata, una paria della società, comprenderà quanto siano assurde le regole sulle quali fino a quel momento aveva riposto ogni fiducia e come sia labile, quasi inesistente, il confine tra perfetti e fallati. Ma capirà anche che il sistema messo su dalla Gilda non è così monolitico come appare e dovrà scegliere se continuare a essere se stessa o fare il gioco di chi vuole usarla a proprio vantaggio, seppur per demolire il sistema.
Tipico romanzo distopico, Flawed arriva da un'autrice assai prolifica, ma nuova al genere. Negli anni ho letto e apprezzato diversi romanzi di Cecelia Ahern (da uno, P.S. I love you, è stato tratto anche un film) e siccome il genere distopico mi intriga, sebbene la mia competenza si fermi ai classici (1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451), non ho avuto dubbi sulla scelta di questo titolo.
Devo dire che all'inizio ho stentato ad appassionarmi. L'ho preso e lasciato più e più volte, forse perché, da italiana, l'idea di una società dove vieni sanzionato e allontanato da tutti perché sei stato disonesto, o hai fatto cattive scelte o, peggio, hai rubato alla società, più che fantascienza mi sembrava comicità allo stato puro.
Una volta ingranata la lettura, però, il romanzo è ben congegnato, ha una trama accattivante, che funziona e che intriga al punto giusto da spingerti a leggere anche il secondo volume, Perfect, perché, sì, sappiatelo, con Flawed la storia è solo all'inizio e per capire come si conclude bisogna leggere il seguito.
Resta il fatto che tra i mondi distopici che ho avuto modo di attraversare, quello di Flawed è quello che mi incute meno paura forse perché, sempre da italiana, un po' di moralità in più non mi dispiacerebbe.
Ma non ditelo a Celestine North, probabilmente non sarebbe d'accordo.

Flawed di Cecelia Ahern, Harper Collins

Questo post partecipa al Venerdì del Libro di HomeMadeMamma

lunedì 1 luglio 2019

A ritroso nella storia tra i castelli della Loira

A guardarlo da quel che resta di quella magnificenza, lì nelle stanze semivuote di Versailles, il viaggio nei castelli della Loira è stato un percorso a ritroso nella storia della Francia e dei suoi re. Da Carlo VII, che grazie alla giovanissima Giovanna D'Arco trovò il coraggio di rivendicare il trono, come ci ricorda ogni pietra dell'elegante Orléans, al fiero Francesco I, il re nomade che transumava con la sua corte da una reggia all'altra, ad Amboise, dove aveva chiamato a sé il genio di Leonardo, alla "casina" di caccia di Chambord, il luogo ideale per liberare cinghiali tra la corte per poi stupirla con un dardo ben piantato;
Clos Lucet, la casa di Leonardo ad Amboise
come non ricordare poi sua nuora, Caterina de' Medici, madre di tre re, moglie di un Enrico (II) infedele a tal punto da donare un castello, Chenonceau, a Diana di Poitiers, sua amante, Caterina che, ripresasi Chenonceau alla morte del marito, lo trasformò in una reggia all'italiana, donna astuta e forte, come solo il suocero, che amava cavalcare con lei a Chambord, aveva capito.
Il castello di Chenonceau, naturale che Caterina lo volesse indietro
E poi Francesco II, ucciso diciassettenne da un'otite nelle stanze dell'hotel Groslot di Orléans, la guerra dei tre Enrichi, che a Blois trova il palcoscenico adatto a una serie di omicidi, fino al re Sole che pose fine all'epoca dei re itineranti con la maestosa Versailles, teatro dell'epilogo sanguinoso e infausto di questa monarchia, di cui le stanze delle sorelle Victoire e Adelaide, in quella solitudine da zitelle, lussuosa, ma priva della grandiosità e dello sfarzo delle camere del nipote Luigi XVI, sono il simbolo più significativo.
La stanza dell'hotel Groslot dove morì Francesco II. Pare che il medico avesse consigliato di praticare un foro sulla tempia, ma Caterina rispose che solo Dio poteva guardare nella testa del re
Sebbene non abbia seguito proprio quest'ordine cronologico, il viaggio nella Loira ha avuto comunque il pregio di farci assaporare le atmosfere e i fasti dei sovrani d'Oltralpe, portandoci da borghi medievali dai tetti a spiovente a cittadine dove le case a graticcio si alternano a piazze e viali dal gusto neoclassico.
Casa a graticcio a place de la Plumereau a Tours
E' una terra di pianure e campagne, la Loira, di boschi, prati e verde a profusione, innaffiato dal reticolo della Loira e dei suoi affluenti lungo i quali si snodano gli oltre 60 castelli che re, funzionari della corona e nobili, si fecero costruire nel corso dei secoli.
Il castello di Blois
Partiti da Chartres, le nostre aspettative si sono un po' spente, complice, forse, una cittadina che ci si è presentata praticamente deserta, perché mentre noi in Italia ancora dibattiamo su negozi aperti sì, negozi aperti no, lì il problema non se lo pongono proprio e di domenica son tutti chiusi, fatta eccezione per qualche sparuto bar e ristorante. Le piccole dimensioni del posto hanno fatto il resto e ci siamo sentiti un po' come Will Smith in Io sono leggenda, attimi di panico compresi quando abbiamo avuto la sensazione di essere seguiti. Peccato perché il paese è davvero carino, la cattedrale che ve lo dico a fare e fino a ottobre ogni sera i monumenti principali sono illuminati da uno spettacolo di luci e suoni davvero ben fatto. Anche lì, però, mi sarei aspettata un numero maggiore di spettatori. Eravamo perlopiù turisti, tanto che mi sono chiesta dove fossero e cosa facessero gli abitanti di Chartres.
La cattedrale di Chartres illuminata dallo spettacolo serale
Comunque il morale ci si è risollevato a Tours e Orléans, due splendide città un po' medievali un po' neoclassiche dove, per fortuna, la gente non ha perso il piacere di passeggiare.
Uno scorcio di place de Martroi a Orléans
D'altronde gli ampi viali costellati da vetrine e vetrine di negozi, la maggior parte dei quali NON sono delle solite catene che si incontrano ormai ovunque, alimentano il gusto di uscire e osservare, sebbene entrambe non abbiano grandi centri storici e siano comunque cittadine che viaggiano su poco più di 100.000 abitanti.
La cattedrale di Orléans
Da queste città ci siamo spostati in macchina per visitare i castelli, selezionando, ovviamente, quelli che ci interessavano di più. A parte le regge più famose, Chenonceau, Chambord, Blois e Amboise (anche se qui non abbiamo visitato il castello, ma solo Clos Lucet, la casa di Leonardo che, avendo una sezione dedicata alle sue invenzioni e un parco in cui alcune di queste sono "fruibili" dai bambini, è decisamente più adatta a chi ha figli), abbiamo scelto Villandry e Azay-le-Rideau che non hanno mai ospitato principi o re, ma dispongono, la prima, di un giardino spettacolare con un orto dalle aiuole variopinte e la seconda di un'atmosfera fiabesca, con quel maniero turrito adagiato sul fiume Indre e il fruscio placido delle piccole cascatelle che si diramano tutto intorno.
Una parte dei giardini di Villandry
Se proprio dovessi comprarmi un castello, credo che la mia scelta cadrebbe su Azay-le-Rideau
Sebbene i castelli siano tanti, non tutti sono visitabili, altri, immagino, meritano di meno, in ogni caso la scelta è d'obbligo, vuoi perché raggiungerli richiede tempo, vuoi per una questione, non trascurabile, di budget.
Il castello di Ussé l'abbiamo visto solo dall'esterno, pare che abbia ispirato a Perrault la fiaba della Bella addormentata
La nostra ultima tappa è stata Versailles. Avrei voluto che i bambini rimanessero affascinati dalla fastosità della reggia, dal corridoio pieno di specchi dell'omonima sala e dall'immensità dei suoi giardini. Dico avrei voluto, perché in realtà la tappa di Versailles è stata la più deludente. Rispetto a 30 anni fa, quando ci andai io, il turismo di massa ha trasformato lo stupore e l'ammirazione in un senso di spossatezza e di fastidio per le innumerevoli file che bisogna affrontare e per la quantità spropositata di gente con la quale condividere le sale.
Anche lo spettacolo delle fontane musicali ci ha lasciati perplessi. Di tutte quelle che ornano i giardini, solo tre effettivamente spruzzavano acqua a tempo di musica, le altre erano normalissime fontane con normalissimi getti fissi e, in sottofondo, un brano musicale. Insomma, come se andassimo nella piazza della nostra città e ne rimirassimo la fontana con un i-pod nelle orecchie. Non credo quindi che i bambini conserveranno grandi ricordi di questa reggia.
Un ultimo accenno al paesino dove abbiamo soggiornato la notte prima della partenza, che non citerò in quanto non ha nulla di particolare, ma che è stato scelto perché l'unico con una struttura nell'Ile-de-France dotata di prezzi abbordabili.
Azay-le-Rideau, tipico borgo della Loira
Dopo i borghi della Loira, tutti senza un filo d'erba fuori posto, con casette uscite direttamente da una pellicola della Disney, ornate di roseti da far invidia, prive di recinzioni e con finestre a piano terra ampie e senza grate, finalmente, probabilmente perché fuori dal circuito turistico, abbiamo trovato dei paesini "normali", con segni di trascuratezza, un marciapiede scalcinato, un'insegna scolorita, case ordinarie e piazze tristi e deprimenti, che ce li hanno fatti sentire vicini a tanti altri nostri paesi. Ah, e con le sbarre alle finestre del piano terra.
Perché saremo pure italiani, ma i francesi son pur sempre nostri cugini ;-)