Come sarebbe stata la vita di Anthony/Michael se fosse rimasto con la sua giovane e povera mamma?
Avrebbe avuto la sfolgorante carriera che lo portò a lavorare per il governo Reagan? Sarebbe diventato l'uomo dai molteplici talenti ricordato dagli amici? Si sarebbe dedicato alla musica, al teatro, alla cucina, se non avesse dovuto riempire la sua vita "di rumore e scompiglio per tenere lontane le angosce che lo tormentavano"? Se non avesse dovuto zittire quelle voci che gli ripetevano di non meritare la felicità e che periodicamente facevano emergere il suo lato oscuro e autodistruttivo?
E' questa la domanda che, in tutta la sua drammaticità, si insinua nella mente dopo aver letto Philomena, il libro in cui il giornalista Martin Sixsmith racconta la vera vita di Michael Hess, nato Anthony Lee, sottratto a tre anni alla giovanissima madre, mandata dalla famiglia a partorire di nascosto in un convento dell'Irlanda degli anni cinquanta, e dato in adozione a una famiglia statunitense.
A me i libri, devo ammetterlo, fanno un doppio effetto. O mi prendono come una droga e li divoro in ogni momento disponibile, o, per quanto belli, me li trascino dietro come un fardello, un dovere che mi impongo di assolvere.
Philomena è rientrato di diritto nella prima categoria e non posso non pensare che il mio essere donna e madre abbia giocato un certo ruolo nel mio giudizio. Perché il succo della storia, amara e lancinante a tratti come una lama nella pancia, sta tutta qui, nel dramma di una madre e di un figlio separati contro la loro volontà (e sulle modalità disumane con cui le suore gestivano le adozioni ci sarebbe da scrivere un altro libro) e nelle ripercussioni che questo distacco forzoso avrà sulle loro esistenze. Poco sappiamo di Philomena, se non che anche lei, per tutta la vita, si porterà dentro il desiderio di rivedere il figlio e dirgli quanto l'ama. Vediamo invece il piccolo Michael crescere con il fardello di un abbandono mal compreso e mal gestito dalla famiglia adottiva che, pur animata da buone intenzioni, si dimostra incapace di assolvere al ruolo che si è scelto.
Il pensiero della vera madre sarà, nel bene e nel male, l'ago della bussola delle scelte di Michael, l'oasi di pace a cui la sua anima anela e il tarlo che allo stesso tempo la divorerà col dubbio e i sensi di colpa.
Martin Sixsmith, ingaggiato da Philomena per rintracciare il figlio dato in adozione, si fa testimone silenzioso della vicenda, lasciando al lettore il compito di trarne un giudizio, di dare un nome ai sentimenti affioranti, di tifare per madre e figlio mentre si rincorrono su binari paralleli.
Il mio approccio al libro sarebbe stato diverso se non fossi mamma, e, comunque, donna? Non so. Posso solo dire che Philomena, sebbene dal titolo un po' fuorviante, perché in realtà incentrato sulla storia del figlio perduto, è un libro che non ho potuto non amare, un po' come non si poteva non amare il Michael raccontato dai testimoni della storia, bambino dolce e affettuoso e uomo amabile e di grande simpatia. E', inoltre, un libro che fa riflettere su come spesso gli adulti, arrogandosi il diritto di sapere ciò che è giusto e sbagliato, calpestino con violenza i bisogni dei bambini e su quanto, ancora oggi, sia sottovalutata l'importanza del legame materno.
"Risale tutto alle nostre primissime esperienze e al modo in cui modellano il resto della nostra esistenza. Sapevi che i neonati sanno distinguere il volto della madre pochi minuti dopo la nascita? Quaranta settimane nell'utero sono l'indicazione di un legame piuttosto consolidato, l'abbandono è un evento traumatico. Anche se i tuoi figli fossero stati abbandonati al momento stesso della nascita, continuerebbero a ricordarlo, magari a livello inconscio, e a provare dolore".
Philomena, Martin Sixsmith, Piemme, trad. di Cristina Proto