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venerdì 28 luglio 2017

Pretty little liars

Ok, lo confesso, nonostante la mia età mi capita di vedere in Tv qualche teen drama. No, non si tratta di repliche di puntate risalenti alla mia giovinezza, ma di serie nuove. Per esempio ultimamente ho seguito con passione Pretty little liars perché ha una trama a base di misteri, spesso intricata, ma molto intrigante.
Così, visto che d'estate le letture leggere sono abbondantemente concesse, quest'anno ho deciso di rispolverare anche un po' di inglese e di leggere la versione in lingua originale dell'omonimo libro da cui è stata tratta la serie. Ho iniziato dal primo volume, eh sì ce ne sono 17, che è abbastanza fedele alla trama televisiva.
A Rosewood, sobborgo chic di Philadelphia, Alison DiLaurentis è una tredicenne bella e popolare. Come ogni adolescente si divide tra scuola, sport, feste e il suo gruppo di amiche: Emily, Aria, Hanna e Spencer. E' stata proprio Ali, personalità carismatica, a sceglierle e formare un  gruppetto che, forte di quest'amicizia, deride, commenta, esclude.
Le cinque ragazze, in realtà, hanno poco in comune fra di loro, a tenerle unite ci pensa Ali e una buona dose di segreti. Ali conosce le verità più inconfessabili di ognuna di loro e poi c'è l'affare di Jenna. Ali ha fatto giurare loro di non parlarne, ma il ricordo di quell'episodio le tormenta da tempo.

Tre persone possono mantenere un segreto. Se due di loro sono morte
Benjamin Franklin

Siamo alla fine del seventh grade (la nostra seconda media), le vacanze estive sono appena iniziate quando, durante un pigiama party, Ali esce in giardino e scompare misteriosamente.
Flash forward e ci troviamo, tre anni dopo, con Emily, Aria, Spencer e Hanna che, dopo la scomparsa di Alison, mai più ritrovata, hanno smesso di frequentarsi. Aria ha vissuto un periodo all'estero, Hanna è dimagrita ed è diventata una delle ragazze più carine della scuola, Spencer si impegna nello studio con profitto e Emily è fidanzata con un compagno della squadra di nuoto. La loro vita scorre più o meno tranquilla quando tutte cominciano a ricevere strani messaggi. L'anonimo mittente, che si firma A, sembra conoscerle molto bene, non solo le spia nel quotidiano, ma è al corrente di segreti (i tradimenti del padre di Aria, le tendenze sessuali di Emily, i problemi familiari di Hanna e la gelosia di Spencer verso la sorella) che non hanno condiviso con nessuno, con nessuno...tranne che con Alison.
Chi è quindi che le minaccia? Che Alison sia tornata? O forse è il suo fantasma a tormentarle dall'aldilà?
Gli avvenimenti precipitano fino al capitolo finale che, oltre a riunire le quattro amiche, ci darà qualche risposta. Ma non svelerà l'identità di A. Questo volume si ferma infatti ai primi episodi della prima serie di Pretty little liars, lasciando quindi grande suspense.
Intendiamoci, si tratta di una lettura da ombrellone e per chi, come me, ha già visto il telefilm e sa come andrà a finire, gran parte del pathos è perduto. Però il libro scorre piacevolmente e i personaggi risultano più approfonditi e meno edulcorati rispetto alla versione televisiva.
Insomma una lettura da consigliare a chi vuole divertirsi e mettersi alla prova. Chi sarà il misterioso A?

Pretty little liars di Sara Shepard, Harper Teen

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

lunedì 24 luglio 2017

Là dove batte l'oceano

Nel 2007, quando facemmo il nostro primo giro on the road della Spagna che da Madrid ci condusse in Andalusia, attraversammo vallate rosse di papaveri, coltivazioni di ulivi intervallate da qualche collina (più le scogliere battute dal vento che faceva mulinare le pale eoliche) su autostrade ottime e gratuite.
Da Madrid all'Andalusia, i paesaggi della Spagna del Sud
Quest'anno, nei nostri spostamenti da Bilbao verso Santander e poi San Sebastian, abbiamo avuto modo di vedere un territorio completamente diverso. Le autostrade, a pagamento e pure care, si insinuavano come serpenti tra montagne verdi che nascondevano la vicina costa.
Le città nel Nord della Spagna, almeno quelle che abbiamo visitato, sono spesso schiacciate dai monti: Bilbao si adagia in una valle e le case risalgono su lungo le pendici; Santander e San Sebastian si allungano tra i rilievi e il mare e la combinazione di piogge e corsi d'acqua regala una vegetazione rigogliosa, sconosciuta alle nostre marine.
Di Santander, capitale della Cantabria, abbiamo purtroppo visto poco. Il palazzo della Magdalena, residenza estiva dei sovrani spagnoli nei primi del '900, aveva da poco cambiato orari di visita e abbiamo scoperto che l'accesso era consentito solo sabato e domenica, noi ovviamente si era lì di martedì e questa porta in faccia, in barba alla perfezione nordica di quelle zone, aveva un sapore nosrtrano. Abbiamo avuto giusto il tempo di visitare il parco del palazzo, che è scoppiato un acquazzone di quelli memorabili e niente, di Santander mi resterà il ricordo di un veloce giro in macchina e di una lunga permanenza nel El Corte Inglés locale.
Il sole ci ha baciati invece a San Sebastian che mi ha fatto pensare a Montecarlo, sebbene io non sia mai stata nel principato di Monaco.
La città basca sorge su di un'ampia baia che culmina, a destra e a sinistra, con due monti, L'Igueldo e l'Urgull. Al centro, quasi a chiudere l'accesso, una piccola isoletta a forma di tartaruga: l'isola di Santa Clara.
Il panorama è davvero bello, almeno quello dal monte Igueldo, la cui cima si può raggiungere facilmente con la funicolare. La spiaggia, come avevamo avuto modo di constatare anche a Valencia, è ampia, pulita e libera. Non siamo scesi fin sulla riva ma devo dire che anche il mare sembrava bello...per lo meno considerando che si trattava di oceano.
San Sebastian ha un fascino retrò. Un centro storico piccolo e antico e ampi quartieri dal gusto primi Novecento. Anche qui, una cura degli spazi pubblici da fare paura. Ovunque, nei Paesi Baschi, era un pullulare di giardinieri e addetti alla manutenzione di fontane, nonché un fiorire di macchinari da noi impensabili, come quello che sminuzzava le potature e le eiettava in un rimorchio.
San Sebastian, spiagge pulite, verde curato e un tocco d'antan
Girare in auto in Spagna si è rivelato ancora una volta semplice. Il parcheggio non è un problema, ogni città ha centinaia e centinaia di posti sotterranei per cui tu paghi, è vero, ma hai la certezza di trovare posto in cinque minuti e in qualsiasi parte delle città, anche in centro (tra l'altro il comune di San Sebastian ha on line tutti i parcheggi con i posti liberi sempre aggiornati: cioè n'altro mondo). Se si è fortunati, poi, magari si può trovare posto anche fuori, lungo le strade. A Bilbao ci siamo riusciti e dopo le otto non si paga.
Rispetto al resto del Paese il territorio basco ci è sembrato un po' più caro. A Bilbao, ad esempio, nonostante avessimo prenotato otto mesi prima, non abbiamo trovato una quadrupla a prezzo decente e quindi abbiamo preferito alloggiare in un paese là vicino. Anche sul cibo bisogna andare cauti, e spulciare bene il menù per non prendere legnate: noi a Bilbao siamo stati un po' ingenui con la sangria (che peraltro avevamo bevuto ovunque a prezzi politici): non abbiamo consultato prima il prezzo e una, dico una caraffa, ce l'hanno fatta pagare 18 euro.
Infine, sebbene non ci siano attrazioni studiate proprio per i più piccoli (a parte i famosi parchi giochi buttati praticamente ovunque in Spagna) come ci era capitato a Valencia, i bambini hanno gradito il giro e i tratti in auto hanno aiutato a diluire la stanchezza.
Da Barcellona, passando per Valencia e Santander abbiamo testato e apprezzato i parchi spagnoli
Abbiamo evitato ovviamente mete troppo culturali, a parte l'Hospital di Sant Pau che peraltro hanno visitato senza lamentarsi, Ieie incuriosito dal fatto che lì prima ci fosse un ospedale, la Lolla saltellante nei giardini, e optato per passeggiate, panorami e visite a monumenti che non richiedessero troppo tempo. Oppure a parchi, come quello del Monsterio de Piedra che ha incantato i bambini con le sue cascate.
Insomma, questo giro mi ha permesso di colmare un desiderio che coltivavo da anni e di vedere un altro spicchio della penisola iberica. Sono tornata a casa sazia e il mio mal di Spagna, per ora, è appagato.
Per ora. C'è ancora quell'Ovest del Paese che mi attira. Ma questo è un altro sogno da coltivare, e una scusa per pensare che prima o poi tornerò al di là dei Pirenei.

lunedì 17 luglio 2017

Bilbao, la Spagna del Nord Europa

Correva l'anno 2001 quando Megan Gale, al suono di Sky di Sonique, nello spot dell'allora Omnitel si esibiva in un numero di pattinaggio acrobatico sul tetto di un edificio dalle volute argentate.
Non ricordo se Google fosse già operativo, certo è che gli smartphone erano di là da venire e, quando avevi un dubbio, ti toccava tenertelo per molto tempo. Non so quanto passò prima di scoprire che quell'edificio era il nuovo museo Guggenheim e che si trovava a Bilbao che in quegli anni stava vivendo un rilancio architettonico e culturale, fatto sta che da allora un semino prese a germogliare nel mio cervello: volevo vedere quella città, volevo vedere quell'edificio argentato.
Sedici anni dopo il mio sogno è diventato realtà e il bello è che le aspettative non sono state deluse. Quando dal ponte Salbeko, entrando in città la sagoma del Guggenheim si è stagliata davanti a noi, siamo rimasti tutti a bocca aperta davanti  a cotanto apparato scenografico.
Le foto non rendono: ma il Guggenheim è davvero maestoso e spettacolare

A colpirci è stata dapprima l'architettura imponente e immaginifica del museo, poi tutta l'area del lungofiume, con i curatissimi spazi verdi, i giochi d'acqua, i viali dove correre e andare in bici, il ponte Zubizuri, il tram che corre accanto al fiume tra rotaie adagiate nell'erba.
L'area del lungofiume: il ponte Zubizuri, i giochi d'acqua e le rotaie in mezzo al prato

Anche qui, abitudine molto spagnola, ogni 3/400 metri c'è un parco giochi, con attrazioni gratuite, moderne e ben tenute. Anche qui ordine, pulizia, decoro e fiori freschi a profusione.
L'area del lungofiume non è nuova, i palazzi dall'aria nordeuropea hanno uno stile d'altri tempi, eppure tutto sembra appena ristrutturato, tutto è pittato, laccato e stirato e tu ti chiedi come facciano, che nei nostri condomini ci scanniamo solo per sostituire una serratura difettosa.
I bellissimi palazzi di Bilbao
Bilbao, dicevo, è una Spagna diversa. Un po' nordeuropea, con quei nuvoloni da clima atlantico sempre in agguato, con i bovindo, i canali, gli scorci che ricordano i quadri di Magritte e quelle facciate colorate stile Amsterdam.
E mentre passeggi, il lato opposto del marciapiede si abbassa e tu ti trovi davanti a uno scorcio magrittiano
Bilbao, però, è sopratutto basca. Qui questa diversità, ostentata con orgoglio, si respira non solo per le bandiere rosse e verdi, le scritte in una lingua strana, ma soprattutto per l'assenza nel Casco Viejo delle grandi catene internazionali che monopolizzano i centri di Barcellona, Valencia o Saragozza.
Il Casco Viejo, la parte antica di Bilbao
Girando nella parte antica della città, forse meno chic rispetto al vicino lungofiume, ci si scopre a sbirciare in vetrine che hanno un sapore retrò. Un negozio di baschi, botteghe con abiti per bambini che per tessuti, ricami e taglio, e la totale assenza di griffe note, ricordano quelli di quando eravamo piccoli; boutique di scarpe e vestiti che hanno un tocco di originalità e che attirano sguardi incuriositi e compiaciuti. Negozi di stoffe, pasticcerie con le specialità locali che occhieggiano invitanti dalle vetrine, alimentari votati al baccalà in tutte le salse.
C'è un qualcosa di unico, forse un po' vintage, che traluce da questi negozi, eppure il risultato non sa di vecchiume, di antico, di sorpassato. Tutt'altro: per noi questo non sottostare alla globalizzazione dei consumi ha un sapore nuovo, e, come le madeleine di Proust, ci richiama alla mente vetrine di un passato che abbiamo assaggiato.
L'orgoglio basco ha la sua massima espressione nell'Athletic Bilbao, la squadra di casa con un palmares di tutti rispetto e una condicio sine qua non per essere reclutati tra le file bianco rosse: il certificato di nascita dei Paesi Baschi.
Non so, forse esagerano con questa storia dell'appartenenza, però a me l'idea del difendere le proprie radici, del non sottostare alla dittatura del mercato (e delle abitudini) globale non dispiace. Dopotutto il mondo è bello perché è vario, e se così non fosse non ci prenderemmo la briga di girarlo.
Tra bambini è facile fare amicizia, anche se si parlano lingue diverse: qui Ieie gioca in Plaza Nueva con un bambino con la maglia dell'Athletic Bilbao

venerdì 14 luglio 2017

La verità sul caso Harry Quebert

Un libro che "ti prende" è un piacere tutto da gustare al quale non vedi l'ora di dedicare il tuo tempo libero. E' come un bel regalo che ti aspetta e sei felice perché ogni pagina intonsa sarà una sorpresa da scartare.
Questo pensavo mentre mi abbandonavo alla lettura de La verità sul caso Harry Quebert, di Joel Dicker, finché sono rimasta spiazzata da una sorta di aforisma conclusivo in calce al romanzo, perché sembrava quasi che l'autore mi avesse letto nel pensiero.
Dicker ci porta ad Aurora, tranquilla cittadina del New Hampshire, dove il giovane scrittore Marcus Goldman si reca a trovare il suo professore universitario, nonché grande scrittore, Harry Quebert. Siamo nel 2008 e, dopo l'enorme successo del suo primo libro, Marcus è in preda a una calo d'ispirazione: l'editore aspetta un nuovo best seller, ma nella testa di Marcus c'è il vuoto. Neanche gli incoraggiamenti di Harry, da sempre suo mentore e amico, hanno successo, ma proprio quando le speranze sembrano sparire, il ritrovamento nel giardino di Harry dei resti di Nola Kellergan, quindicenne di Aurora scomparsa misteriosamente nel 1975, daranno a Marcus la voglia di ricominciare a scrivere.
Lo farà proprio per scagionare Harry, che con la ragazzina aveva una relazione proibita e che viene accusato di averla uccisa.
In un patchwork di flashback e ricostruzioni, frammenti dei libri di Harry e Marcus, in un gioco di metalibro in cui talvolta il lettore si perde, ci ritroviamo nell'estate di trentatré anni prima, per scoprire che, sotto la sua patina sonnacchiosa, Aurora nasconde un micromondo dai risvolti inimmaginabili.
Come in uno spettacolo pirotecnico, Dicker parte in sordina, ci conduce a un approdo, devia, torna indietro, fa compiere alla storia talmente tante evoluzioni da lasciarci storditi e affascinati per poi giungere a un finale scoppiettante. E il bello è che, a differenza di altri gialli, stavolta non c'è nemmeno bisogno di tornare indietro per rileggere qualche passaggio fondamentale, perché con qualche trucchetto Dicker ce lo riproporrà senza farci scomodare.
Se si cerca un libro profondo, che tocchi l'animo e la mente, forse è meglio cambiare scelta, ma se si ha voglia di una storia accattivante, di una trama densa, allora questo è il titolo ideale. E quelle 700 e passa pagine, tutte da scoprire, passeranno in un baleno.


"Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le ultime parole [...] All'incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, il lettore deve sentirsi pervaso da un'emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte quelle cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito".

La verità sul caso Harry Quebert, di Joel Dicker, Bompiani, traduzione di Vincenzo Vega

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

lunedì 10 luglio 2017

Giugno, verso la Spagna del Nord

Lo chiamano mal d'Africa perché, una volta vista, pare che si desideri fortemente tornarci. Non so se sia vero, non sono mai stata in Africa, però conosco il mal di Spagna, quel desiderio di visitarla ancora e ancora che, in dieci anni, mi ha riportata lì per la quinta volta.
E' passato ormai un mese dalla nostra vacanza sulle coste oceaniche della Spagna, un itinerario studiato e programmato con mesi di anticipo (e questo ci ha permesso un notevole risparmio economico perché i prezzi a ridosso della partenza erano lievitati), un viaggio on the road nel Nord del Paese esattamente a dieci anni da quello che, fidanzati, facemmo partendo da Madrid e guidando fino alla Spagna del Sud.
Questa volta la prima tappa è stata Barcellona, sempre splendida, sempre ricca di posti nuovi da ammirare. Ci eravamo ripromessi un giro veloce nella capitale della Catalogna, poi però la scoperta del restauro di un monumento del modernismo catalano ora visitabile (praticamente ogni anno c'è qualcosa di bello che riapre al pubblico), ci ha "costretti" a prolungare il nostro itinerario.
Si tratta dell'ospedale de la Santa Creu e Sant Pau, un vero e proprio ospedale costruito nel 1902 in stile modernista e funzionante fino al 2009. E' incredibile come questo gioiellino di Domènech i Montaner unisse alla bellezza architettonica le più moderne (per l'epoca ovviamente) concezioni di comfort e funzionalità ospedaliere. Purtroppo non è possibile visitarlo tutto, i lavori di restauro sono ancora in corso, e questo (forse) spiega il prezzo molto alto del biglietto (sì, glielo dobbiamo pagare noi turisti il restauro :-( ).
Ospedale de la Santa Creu i Sant Pau

Da Barcellona il nostro itinerario è proseguito per Saragozza, capitale dell'Aragona. Si tratta di una cittadina poco battuta dal turismo internazionale e forse per questo in pochissimi parlavano inglese. Il centro, abbastanza piccolo, è, come in tutta la Spagna, molto ben tenuto. I palazzi colorati sembrano sempre pitturati di fresco, le case dalle facciate impeccabili, coordinate tra loro.
A differenza di altre città spagnole, però, appena fuori dal centro ho notato una certa trascuratezza, un aspetto più trasandato e sporco, insomma non mi sono sentita a mio agio, come invece di solito mi capita al di là dei Pirenei.
Saragozza: la piazza con la Basilica e la Cattedrale e i palazzi del centro

La disponibilità della macchina ci ha permesso di spostarci in un paesino a 100 km da Saragozza, Nuevalos, dove ha sede un bellissimo complesso, il Monasterio de Piedra. Durante il percorso abbiamo constatato che l'Aragona non è solo praterie brulle e assolate (la stessa Saragozza era caldissima, da qui forse l'abitudine degli abitanti di cercare ristoro tuffandosi nella fontana della piazza principale), ma anche oasi di verde tra le montagne.
Il Monasterio di per sé non è molto diverso dai nostri, la sua particolarità è per l'appunto il bellissimo parco che, tra boschi e colline, nasconde una rete di cascatelle, ruscelli e laghi. Per motivi di tempo non siamo riusciti a vederlo tutto, ma ne vale davvero la pena. Anche qui il costo del biglietto, tra l'altro, è altino (cioè, gli Uffizi costano meno!), per cui a saperlo prima avremmo cercato di rimanere qualche ora in più, purtroppo però non conoscevamo la strada e la via tortuosa ha richiesto più tempo del previsto.
La strada verso il Monasterio e il parco

Sulla via del ritorno ci siamo fermati a mangiare in un paesino trovato strada facendo. Se non fosse che parlavano solo spagnolo e che eravamo tra le colline, con un bellissimo panorama soleggiato nonostante le otto di sera passate, il clima rustico e familiare avrebbe potuto essere tranquillamente quello di un qualsiasi paesino della nostra provincia. Poi quando Ieie si è entusiasmato per un gol della nazionale spagnola trasmesso in Tv, i vecchietti del posto l'hanno preso proprio in simpatia.
Lasciata Saragozza abbiamo fatto rotta verso una zona del tutto nuova per noi, una Spagna un po' diversa dal solito, dove le bandiere appese ai balconi (per carità anche a Barcellona è pieno del giallo e del rosso della Catalogna, ma finisce lì) chiedevano una sola cosa: Independentzia, e lo chiedevano con una lingua un po' diversa dai soliti dialetti locali.
Bandiere su calle de la Estafeta, ma potrebbero essere in una qualsiasi altra via di Pamplona

Ce ne siamo accorti già dalla nostra mattinata a Pamplona, capitale della Navarra che, pur non facendo parte della provincia dei Paesi Baschi, Basca si sente fin nel midollo.
Lo dicono i cartelli in quella lingua strana (pare sia una delle più antiche in Europa), le bandiere, i prodotti tradizionali che i camerieri assicurano essere, oltre che unici, anche buonissimi.
Altro che il tormentone "siamo come i tori a Pamplona". Noi come i tori, a Pamplona, ci siamo fatti tutta la via che a luglio viene attraversata dall'Encierro, la famosa corsa per la festa di San Firmino. Non so come la riducano in quell'occasione, ma posso assicurare che calle de la Estafeta, come tutta Pamplona, è un gioiellino.

Da lì, abbiamo proseguito la risalita verso Nord, rotta la bellissima Bilbao....

venerdì 7 luglio 2017

Le confessioni di un italiano

I classici sono da sempre una mia fissazione, quel vuoto imprescindibile da colmare a ogni costo. Un tempo ne consumavo molti di più, adesso diciamo che me ne impongo almeno uno l'anno e stavolta la scelta è ricaduta su un classicone made in Ottocento, quel Le confessioni di un italiano che portò fama a Ippolito Nievo, morto poco dopo in giovane età nel naufragio di una nave. 
Ambientato in un'Italia ancora divisa, il romanzo si snoda dal periodo che va dalla Rivoluzione francese alla vigilia della seconda guerra d'Indipendenza e narra, attraverso le memorie dell'ottuagenario Carlo Altoviti, nato nella Repubblica di Venezia, ma che spera di morire italiano, le vicende storiche, e belliche, del nostro Paese attraverso le avventure della sua vita.
Abbandonato in fasce a casa della cugina Pisana, presenza bizzosa e costante della sua vita e unico vero amore del protagonista, il giovane Carlo cresce tra la servitù del castello di Fratta, in Friuli, ed assiste allo sgretolamento di un mondo ormai al tramonto, alla diffusione di nuove idee, mentre di pari passo anche la sua vita cambia. Scoperto di avere un padre, si ritrova tra il patriziato veneziano, per poi cadere subito dopo tra i proscritti col trattato di Campoformio e girare l'Italia, un po' per caso un po' per volontà, trovandosi al centro delle vicende belliche del periodo, dalle repubbliche napoleoniche, alle rivolte del '20 e '21 fino alla prima guerra d'Indipendenza.
Tra altri e bassi Carlo dimostra soprattutto una forte morale e una dedizione alla vita e agli ideali che lo portano, anche davanti a grandi sventure, a impegnarsi e ad avere fiducia nel futuro.
Devo ammettere che all'inizio, vista l'estrema difficoltà del linguaggio, sciacquato, ammollato e intriso di verbosità ottocentesche, ho rimpianto di non aver affrontato prima questa lettura, quando magari ero ancora fresca del fraseggiare ciceroniano o del romanzare manzoniano. Poi, però, un po' come accade con la sicilianità esasperata del commissario Montalbano, ci ho preso la mano. Mi sono abituata a quei massime che significano soprattutto, all'aveva usato alla prima persona singolare e a tutti gli artifici di un tempo.
E poi, lo dico senza vergognarmi, nonostante il libro sia lontano da noi anni luce per verbosità e mentalità, devo dire che mi è piaciuto.
Se non ci si fa scoraggiare dalla lunghezza e da alcuni tempi morti, si troveranno due aspetti fondamentali nel romanzo di Nievo. Il primo è un approfondimento storico. Tutti quegli anni che sui libri di scuola sono una rassegna di date e battaglie, trovano ampio respiro nella narrazione e alcune vicende nelle quali il protagonista si trova coinvolto in prima persona, permettono al lettore di avere un quadro più chiaro di quel periodo e di comprendere meccanismi e situazioni che di solito a scuola impariamo meccanicamente senza soffermarci troppo sul come e sul perché.
Il secondo aspetto è che leggendo questo libro ci si rende conto, purtroppo, che tutto cambia affinché nulla cambi. Alcune riflessioni di Nievo, sul sistema giudiziario o sulla decadenza della Repubblica di Venezia ad esempio, calzerebbero anche ai nostri tempi, a sostegno della tesi sui corsi e ricorsi storici di cui parlava Vico.
O a dimostrazione che ci sono caratteri ereditari in questa Italia, che hanno origini antiche e forse per questo sono così difficili da estirpare.

Se Venezia era de' governi italiani il più nullo e rimbambito, tutti dal più al meno agonizzavano per quel difetto di pensiero e di vitalità morale.

Le confessioni di un italiano, Ippolito Nievo, Giunti Demetra

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma