lunedì 16 luglio 2018

Serbarìu

La storia mi è sempre piaciuta. Anche quella con la s minuscola che non trova spazio sui libri, ma solo nei ricordi delle nonne. La mia, per esempio, mentre seduta sulle sue ginocchia le domandavo della guerra e del paesino, diceva che "andavo in brodo di giuggiole" davanti ai suoi racconti.
Sarà per questo che una delle esperienze più belle della Sardegna, senza nulla togliere al mare e alle bellezze naturali, è stata scoprire il suo passato legato alle attività estrattive.
Personalmente quel poco che sapevo sulle miniere della Sardegna era che erano ormai chiuse. Non immaginavo, però, che questo passato neanche tanto remoto, avesse lasciato un'eredità architettonica suggestiva e inquietante allo stesso tempo.
Attraversando la subregione del Sulcis-Inglesiente può capitare di incontrare alcuni villaggi abbandonati costruiti oltre un secolo fa in prossimità delle miniere, per ospitare i minatori e le loro famiglie.

Andando verso Piscinas, Ingurtosu si presenta così: le croci del Golgota accanto alla chiesa e una cascata che attira l'attenzione dei passanti
Si tratta di paesini sorti nel mezzo del nulla, come Ingurtosu-Naracauli, vicino Arbus, adagiato nella valle che si attraversa per raggiungere Piscinas, e che per questo dovevano essere autosufficienti, con le loro case, la chiesa dedicata a Santa Barbara, l'ospedale, la scuola e l'onnipresente palazzo della direzione, il più bello e fastoso di tutti, poiché ospitava la borghesia a capo di quel micromondo.
Il palazzo della direzione di Ingurtosu
La chiesa di Santa Barbara vista dal palazzo della direzione
Disabitati dalla chiusura degli impianti, sembrano oggi dei villaggi fantasma, con quegli enormi mausolei diroccati che si stagliano sul fianco delle colline, le laverie e gli impianti di estrazione, e le case che si sgretolano come carcasse in disfacimento.
La laveria Brassey a Naracauli

La sensazione che si prova attraversando Ingurtosu è quella di essere catapultati in un villaggio da film western, solo che qui non c'è cartapesta o facciate finte, è tutto vero e il silenzio e la solitudine rendono lo scenario incredibile.
Le case di Ingurtosu. Qualcuna, ristrutturata, sembra ancora abitata
Lì dove un tempo uomini  e donne soffrivano, gioivano, si innamoravano, dove famiglie intrecciavano le loro vite come in un qualsiasi paesino italiano, adesso non c'è più nulla.

Al giallo delle colline di Ingurtosu si contrappone il rosso di Monteponi, vicino Carbonia, dove si estraeva il ferro. Anche qui, guardando in su dalla statale, il colpo d'occhio è suggestivo.
Il sito di Monteponi
Montevecchio è una delle poche miniere dove è possibile fare visite guidate, ma ahimé, il giorno in cui eravamo in zona era chiusa per una manifestazione. Il desiderio di conoscere di più questo mondo era però troppo forte e con l'aiuto di Google abbiamo trovato un'alternativa che ci è piaciuta moltissimo.
E' così che siamo arrivati a Serbarìu, vicino Carbonia che, a differenza delle miniere sopra citate, in mano ai privati, apparteneva allo Stato e non produceva metalli ma carbone.

Elmetto in testa, siamo scesi nelle viscere della terra a visitare le gallerie, perdendoci in un dedalo di cunicoli mentre la nostra guida ci spiegava come si lavorava a tanti metri di profondità. Si tratta, come è facile immaginare, di un mestiere duro: i cunicoli dove i minatori scavavano erano alti circa 80 cm e quindi bisognava procedere chinati "come topi", mentre il fumo nero del carbone estratto a secco otturava pelle e polmoni.
Al contrario di quel che si può pensare, gli incidenti mortali a Serbarìu non furono molti, tanto che in 26 anni le vittime furono "solo" 128. In questi numeri, però, non si contano tutti coloro che di carbone si ammalarono e morirono, perché all'epoca non si conoscevano i danni che questo lavoro arrecava alla salute.
Eppure Serbarìu ha rappresentato una meta ambita per molti uomini che, dalla Sardegna e dal resto d'Italia, arrivarono qui con la speranza di trovare un lavoro e anche una casa nella vicina Carbonia, costruita proprio nel 1938 per ospitare i minatori.
Gli anni di splendore, se così si può dire, furono quelli intorno alla Seconda guerra mondiale, quando il regime di autarchia e la maggiore richiesta di carbone portarono la miniera a lavorare anche di notte. Poi il lento declino, fino alla chiusura avvenuta nel 1964, quando ormai le importazioni dall'estero rendevano il carbone made in Italy poco conveniente.

A completare la visita il padiglione della lampisteria dove è possibile approfondire le conoscenze sul carbone, sulle attrezzature usate negli anni dai minatori e sulle condizioni di vita e di lavoro di questi ultimi. Oltre alle docce, al pannello con le piastrine di riconoscimento e all'abbigliamento da lavoro, il museo espone lettere, filmati, fotografie e oggetti di uso quotidiano che aiutano a comprendere e ricostruire la vita di questi uomini che erano, prima di tutto, persone.
A chi capita in zona un giro a Serbarìu o in un altro sito è straconsigliato. Su Internet si possono trovare i nomi dei vari villaggi e miniere, anche se mi è parso di capire che la gran parte sono chiusi e non offrono escursioni guidate.
Anche passare in auto attraverso uno di questi paesini abbandonati, comunque, è un'esperienza da fare. Perché la storia, dopo tutto, la fanno gli uomini, e per conoscere la storia della Sardegna è indispensabile conoscere la storia di chi vi abita.
Edifici minerari a Piscinas, oggi trasformati in un resort. Sotto, una lapide vicino al pozzo Gal di Ingurtosu



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