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mercoledì 29 aprile 2015

Numero Uno

E così il momento tanto atteso è arrivato. Dopo alcuni giorni di dondolii, ieri Ieie si è estratto in classe il primo dentino da latte. Incontenibili le manifestazioni di gioia da parte di entrambi i fratelli che per tutto il giorno non hanno fatto che parlare di soldi, topi e fate.
La Lolla, euforica, alla domanda "Ma poi pure a me mi caderà il dentino?" alternava dichiarazioni di dondolii imminenti nella sua bocca, discettando saputa che il topino porta il soldino ai maschietti e la fatina alle femminucce. Ieie, come per Babbo Natale, mi chiedeva rassicurazioni sul recapito notturno del topino: "Mi porterà qualcosa?", "Che mi porterà?" e mostrava con orgoglio a chiunque gli capitasse a tiro la sua finestrella.
Stamane una Lolla scarmigliata e scalza si è catapultata nel letto del fratello chiedendogli ragguagli sull'arrivo del topo, della fata o di chicchessia ed ha guardato con estrema ammirazione il "soldino" estratto da sotto il cuscino.
Erano solo due euro, ma visti con gli occhi dei bambini sembravano più belli della Numero Uno di zio Paperone.

lunedì 27 aprile 2015

Con gli occhi delle maestre

Con gli occhi delle maestre ho visto un bambino che non conoscevo:
"E' autonomo, quando assegniamo i compiti in classe li fa da solo, senza bisogno d'aiuto" (Ma come, a casa a volte si fa persino imboccare!);
"Ha tanta voglia di raccontare, mi ha detto di quando siete stati al parco con la zia, viene spesso qui alla cattedra per chiacchierare" (Stiamo parlando dello stesso bambino al quale devo estrarre le parole dalla bocca con la pinza, quello che quando non ha confidenza sfonda le tasche con i pugni serrati e digrigna i denti in un sorriso imbarazzato?);
"Ecco è proprio un bel bambino" dove la bellezza non è quella fisica, che a sei anni non ci sono bambini brutti.
Con gli occhi delle maestre quello che mi ha colpito non è stato il rendimento scolastico di mio figlio, ma la mia incapacità nel formulare un giudizio.
Mi sono fatta prendere dall'ansia di correggere, mi sono fatta guidare dall'inganno delle somiglianze convinta di sapere cosa bisognasse evitare. E così ho guardato il dito anziché farmi abbagliare dalla luna.
Con gli occhi delle maestre sono tornata a casa consapevole che il voto peggiore l'avevo preso io.

giovedì 23 aprile 2015

Io leggo perché

Oggi è la Giornata nazionale del libro. Non credo molto nelle giornate della memoria o dedicate a qualcuno&qualcosa, forse perché ce ne sono troppe, una al giorno direi, così che viene meno quella straordinarietà che si vuole sottolineare. Però è vero che gli italiani sono un popolo di analfabeti della lettura e se parlarne può servire a vincere questa resistenza, allora ben venga.
Si dice che la scuola dovrebbe fare di più. Non so. Alle medie nella mia classe c'era una piccola biblioteca e avevamo l'obbligo di leggere un libro a scelta, uno al mese. Nonostante questo, non tutti i miei compagni svilupparono un interesse per la lettura. Anzi, posso dire senza tema di smentita che la maggior parte riprese tranquillamente a non leggere una volta finite le scuole medie. E del resto conosco adulti per cui la lettura è un fastidio, un obbligo strettamente connesso con i ricordi di scuola.
La verità è che leggere è una passione, e le passioni non si trasmettono con le coercizioni. Bisogna svelare il loro aspetto più divertente, bisogna coinvolgere e soprattutto bisogna dare l'esempio. Bisogna mostrare che leggendo ci si diverte.
A casa mia i libri non sono mai mancati, anche se poi il mio modo di essere lettrice (ognuno ne ha uno) è solo mio. Io sono una che si informa, seleziona e porta a casa il suo bottino di amici. Alcuni attesi da tempo, altri frutto di un innamoramento improvviso. Io accumulo libri, che leggo eh!, e che porto avanti anche quando vorrei dire basta. Perché un bel libro a volte è come un buon amico che al primo incontro ti stava antipatico. Qualche volta, invece, l'antipatia si conferma, ma come potevi saperlo prima di arrivare alla fine?
La mia passione, credo, è anche genetica. Lo faceva mio nonno, che ha lasciato in ogni casa in cui ha abitato, vecchie librerie rigurgitanti volumi di ogni genere. Da bambina scorrevo con la testa inclinata tutte le coste, per capire se i suoi gusti coincidevano con i miei. Guardavo quella firma con cui li aveva incisi, e amati, uno a uno. E mi sembrava di conoscerlo un po', quel nonno mai incontrato.
Lo fa mio zio, che tomi sparsi per tutta la casa, e mia cugina che dal suo piccolo bilocale nel Nord, spedisce scatoloni di libri senza dimora ai genitori dotati di una di quelle spaziose abitazioni del Sud.
Ma leggere è anche una malattia. Se finora non ci ha colpito, non vuol dire che si è immuni, è solo che il virus non ha trovato il modo di trasmettersi. Allora cerchiamo di contagiare chi ci sta più vicino, i figli, il coniuge, gli amici più stretti. Mostriamo loro che un libro può essere più appassionante di una serie tv, più coinvolgente dell'ultimo videogame, più rilassante di un massaggio, più adrenalinico del bungee jumping. Chissà che non diventi un'epidemia.
IOLEGGOPERCHE' è l'unico modo che ho per smentire chi dice che abbiamo solo una vita da vivere.


martedì 21 aprile 2015

Philomena

Come sarebbe stata la vita di Anthony/Michael se fosse rimasto con la sua giovane e povera mamma?
Avrebbe avuto la sfolgorante carriera che lo portò a lavorare per il governo Reagan? Sarebbe diventato l'uomo dai molteplici talenti ricordato dagli amici? Si sarebbe dedicato alla musica, al teatro, alla cucina, se non avesse dovuto riempire la sua vita "di rumore e scompiglio per tenere lontane le angosce che lo tormentavano"? Se non avesse dovuto zittire quelle voci che gli ripetevano di non meritare la felicità e che periodicamente facevano emergere il suo lato oscuro e autodistruttivo?
E' questa la domanda che, in tutta la sua drammaticità, si insinua nella mente dopo aver letto Philomena, il libro in cui il giornalista Martin Sixsmith racconta la vera vita di Michael Hess, nato Anthony Lee, sottratto a tre anni alla giovanissima madre, mandata dalla famiglia a partorire di nascosto in un convento dell'Irlanda degli anni cinquanta, e dato in adozione a una famiglia statunitense.
A me i libri, devo ammetterlo, fanno un doppio effetto. O mi prendono come una droga e li divoro in ogni momento disponibile, o, per quanto belli, me li trascino dietro come un fardello, un dovere che mi impongo di assolvere.
Philomena è rientrato di diritto nella prima categoria e non posso non pensare che il mio essere donna e madre abbia giocato un certo ruolo nel mio giudizio. Perché il succo della storia, amara e lancinante a tratti come una lama nella pancia, sta tutta qui, nel dramma di una madre e di un figlio separati contro la loro volontà (e sulle modalità disumane con cui le suore gestivano le adozioni ci sarebbe da scrivere un altro libro) e nelle ripercussioni che questo distacco forzoso avrà sulle loro esistenze. Poco sappiamo di Philomena, se non che anche lei, per tutta la vita, si porterà dentro il desiderio di rivedere il figlio e dirgli quanto l'ama. Vediamo invece il piccolo Michael crescere con il fardello di un abbandono mal compreso e mal gestito dalla famiglia adottiva che, pur animata da buone intenzioni, si dimostra incapace di assolvere al ruolo che si è scelto.
Il pensiero della vera madre sarà, nel bene e nel male, l'ago della bussola delle scelte di Michael, l'oasi di pace a cui la sua anima anela e il tarlo che allo stesso tempo la divorerà col dubbio e i sensi di colpa.
Martin Sixsmith, ingaggiato da Philomena per rintracciare il figlio dato in adozione, si fa testimone silenzioso della vicenda, lasciando al lettore il compito di trarne un giudizio, di dare un nome ai sentimenti affioranti, di tifare per madre e figlio mentre si rincorrono su binari paralleli.
Il mio approccio al libro sarebbe stato diverso se non fossi mamma, e, comunque, donna? Non so. Posso solo dire che Philomena, sebbene dal titolo un po' fuorviante, perché in realtà incentrato sulla storia del figlio perduto, è un libro che non ho potuto non amare, un po' come non si poteva non amare il Michael raccontato dai testimoni della storia, bambino dolce e affettuoso e uomo amabile e di grande simpatia. E', inoltre, un libro che fa riflettere su come spesso gli adulti, arrogandosi il diritto di sapere ciò che è giusto e sbagliato, calpestino con violenza i bisogni dei bambini e su quanto, ancora oggi, sia sottovalutata l'importanza del legame materno.

"Risale tutto alle nostre primissime esperienze e al modo in cui modellano il resto della nostra esistenza. Sapevi che i neonati sanno distinguere il volto della madre pochi minuti dopo la nascita? Quaranta settimane nell'utero sono l'indicazione di un legame piuttosto consolidato, l'abbandono è un evento traumatico. Anche se i tuoi figli fossero stati abbandonati al momento stesso della nascita, continuerebbero a ricordarlo, magari a livello inconscio, e a provare dolore".
Philomena, Martin Sixsmith, Piemme, trad. di Cristina Proto


martedì 14 aprile 2015

I compagni della mamma

Ieie "Mamma sai che oggi a scuola ci hanno cambiato di posto?".
"Ah sì? E tu vicino a chi sei capitato?".
"Vicino a F.L.".
"E com'è, è simpatico F.?".
"Mh, mh".
"Lo sai che anche la mamma quando andava a scuola aveva un compagno che si chiamava F.L.?".
"Sì, mi ricordo".
Arriva lei, fino a quel momento immersa nel gioco. "Mamma, ma i tuoi compagni di scuola mò sono tutti morti?".

Pensavo di aver toccato il fondo alla domanda di Ieie "Ma quand'eri piccola c'era la corrente elettrica?". Invece i figli sanno trovare sempre nuovi modi per farti sentire vecchia.

lunedì 13 aprile 2015

I (lavoratori) sommersi e i salvati

Qualche giorno fa abbiamo incontrato la moglie di un amico. Ci racconta, tra le altre, che ha cambiato lavoro, non insegna più nella scuola privata dove l'avevamo lasciata, ma in una pubblica. Sei contenta, chiediamo.
Certo, adesso la pagano!
Vien fuori che per sei anni ha lavorato senza vedere un soldo. Regolare contratto, con tanto di busta paga, ma tutto fittizio. Noi, che non sapevamo nulla, restiamo basiti. Ha accettato, ci spiega, per avere punteggio, così che adesso è potuta rientrare nelle graduatorie della scuola pubblica. In alternativa avrebbe potuto fare domanda per insegnare nel Nord Italia. Lì avrebbe avuto un lavoro "normale", solo che non se l'era sentita di lasciare il marito, che lavora qui, e il figlio che all'epoca era appena nato.


Oggi, nelle scuole pubbliche frequentate dai miei figli, c'era assemblea sindacale. Alle 9.30.
I diritti dei lavoratori sono sacrosanti, ma questa assemblea, messa di lunedì, a solo un'ora dall'inizio delle lezioni, su di me ha avuto l'effetto di un cece bloccato nell'esofago. Non mi è andata giù.
Alla materna, quando ho lasciato la Lolla, mi hanno chiesto se mi ricordassi che alle 9.30 dovevo riprenderla (come a dire, che l'hai portata a fare?).
Ieie, quando gli ho spiegato dell'assemblea, mi ha risposto "Mettetevi d'accordo. La maestra ha detto che c'era lo sciopero".
Ecco, avrei gradito che sul foglietto, invece dell'avviso di assemblea, mi avessero scritto "Lunedì non portate i vostri figli a scuola. Grazie".


Penso a queste due storie e mi viene un senso di amarezza. Tutte le riforme di questo mondo non salveranno l'Italia, finché a lavoratori ben tutelati si affiancheranno, nell'indifferenza delle istituzioni, nuove forme di schiavismo. O ci sono regole valide per tutti, o qui si implode.

sabato 11 aprile 2015

Di topi, fate e apparecchi

Dopo un anno di racconti sulle vicissitudini odontoiatriche dei compagni di classe, dopo aver rendicontato i loro guadagni, frutto del lavoro di fatine&topini, dopo aver letto sognanti il libro in cui a Peppa cade un dentino agognando di ripeterne le gesta, il momento tanto atteso è arrivato. Da giovedì scorso Ieie si è accorto che gli sta spuntando un dente definitivo, un incisivo inferiore per la precisione, anche se non si capisce se sia il destro o il sinistro.
E qui sta l'inghippo che ha rovinato la festa. Il dente sta crescendo più dietro rispetto agli altri, tutto storto, perché l'omologo da latte non vuol proprio saperne di cadere. Non traballa, né cede di un millimetro. E se per Ieie c'è ancora da attendere prima di poter mettere il dentino sotto il cuscino, io, che non sono per niente ansiosa, appena ho visto quel che stava accadendo ho immaginato mio figlio con gli incisivi "a spina di pesce" sospirando sulla necessità futura di un apparecchio.
In realtà, poi, ci hanno detto che questo nuovo arrivato tutto storto non rimarrà per forza in seconda linea, solo il tempo ci dirà che ne sarà del sorriso di Ieie. Se, però, il dente da latte non dovesse cadere, bisognerà tirarlo, e questa notizia ha un po' spento l'entusiasmo iniziale del piccolo neofita.
Unico soddisfatto, il nonno materno che, per la serie "sangue del mio sangue", ha sentenziato "Oh Ieie non ti preoccupare, anche a me è successo così da piccolo. Mi uscivano i denti nuovi e quelli da latte non volevano cadere. Me li hanno dovuti tirare tutti!".

In tutto questo, la Lolla, anche lei sotto l'influsso di Peppa, di tanto in tanto dice che le sta cadendo un dentino. Peccato che lo ripeta ormai da un anno.

giovedì 9 aprile 2015

Il letterato e l'artista

A quattro anni, dopo aver abbandonato precocemente i (pochi) colori posseduti e gli albi per colorare che gli avevamo imprudentemente regalato, deturpati da segnacci che uscivano in maniera sconcia dai contorni, Ieie decise che il suo strumento di lavoro sarebbe stato la lavagnetta magnetica, di quelle che scrivi e cancelli, e iniziò a portarsela dietro come un talismano. Sbocciò così il suo amore per la conoscenza delle lettere, coltivato tampinando la madre a suon di domande ricorrenti e ripetitive.
All'inizio sulle lettere, quale è quale; poi sulle parole, come si scrive cosa (e qui partiva l'elenco di tutti gli oggetti inclusi nella stanza, seguito dall'appello dei compagni di scuola e da ogni altro nome di cosa o persona di sua conoscenza). Alle domande seguiva la prova di scrittura (sua), la verifica (mia), eventuali correzioni, cancellazione e via di nuovo con un'altra parola.
Ricordo ancora con estrema noia quei pomeriggi di inizio estate del 2012, quando, sotto al porticato, venivo sottoposta al quotidiano interrogatorio amanuense. Capiamoci, all'inizio l'interesse precoce per le lettere mi aveva entusiasmato. Come non elettrizzarsi per un figlio che ripercorre le orme materne? Tuttavia a lungo andare, cominciavo a sentirmi ostaggio di quell'esercito di A, L, D e Alessandri e Benedette. Non ricordo cosa facesse, in quei momenti, la figlia duenne, sdentata e dalla loquacità storpia, tuttavia mi tremavano i polsi all'idea di dover un giorno ripercorrere con lei quegli interrogatori scribacchini. Meglio una figlia ignorante e analfabeta, pensavo.
Passano gli anni e alla soglia dei quattro, anche la Lolla comincia a mostrare interesse per la lavagnetta magnetica che però è un catorcio menomato. Tuttavia non sono le parole l'oggetto d'amore, manco per niente, non gliene può fregare di meno di sapere come si scrive cosa. Lei è un'artista. Riempie fogli, post-it e qualsiasi superficie scrivibile con disegni e colori. Quelli, in disuso, ereditati dal fratello e gli altri che parenti e amici, informati e colpiti dalla vena artistica, le hanno regalato. Di qui a un anno, mi aspetto di vederla sulla collina nelle vicinanze con un cavalletto in versione post-impressionista. O più tipo Masha e Orso.
Carta e colori sono gli strumenti del suo mestiere, lo provano i disegni svolazzanti per tutta la casa e i blocchetti che si porta ovunque, perché non sai mai quando l'ispirazione ti può colpire, la sera dopo aver messo il pigiama, in bagno o a casa di altre persone. Gli album da colorare sono pane quotidiano, inondati da fiumi di cere, pennarelli, pastelli e tempere, in un delirio variopinto irriverente nei confronti della realtà. Ma i contorni, o pontorni come dice lei, quelli no, son rispettati e dividono ordinatamente il rosa dal blu.
E le lettere? Ne conosce alcune (TIHQO), nel senso che le sa scrivere, ma non sa cosa siano né come si pronuncino. Le pone, in ordine sparso e casuale, a firma dei suoi capolavori e poi mi chiede "Che ho scritto?". Risponderle mi crea imbarazzo, come si leggerà quell'accrocco di suoni cacofonici? Allora mi chiede di scriverle il suo nome, io eseguo e provo a spiegarle. Questa è la I, questa la A (dai, penso, almeno la A che è facile e si ripete, può memorizzarla). Ma niente, già non mi ascolta più, l'ispirazione chiama e c'è un altro foglio che aspira all'immortalità dell'arte.

A conti fatti, comunque, il disinteresse totale per le lettere non mi dispiace. Il ricordo di quei pomeriggi di prima estate è ancora troppo vivo perché ne abbia nostalgia. Ci penseranno le maestre ad alfabetizzarla, dopo tutto è il loro mestiere.