lunedì 10 luglio 2017

Giugno, verso la Spagna del Nord

Lo chiamano mal d'Africa perché, una volta vista, pare che si desideri fortemente tornarci. Non so se sia vero, non sono mai stata in Africa, però conosco il mal di Spagna, quel desiderio di visitarla ancora e ancora che, in dieci anni, mi ha riportata lì per la quinta volta.
E' passato ormai un mese dalla nostra vacanza sulle coste oceaniche della Spagna, un itinerario studiato e programmato con mesi di anticipo (e questo ci ha permesso un notevole risparmio economico perché i prezzi a ridosso della partenza erano lievitati), un viaggio on the road nel Nord del Paese esattamente a dieci anni da quello che, fidanzati, facemmo partendo da Madrid e guidando fino alla Spagna del Sud.
Questa volta la prima tappa è stata Barcellona, sempre splendida, sempre ricca di posti nuovi da ammirare. Ci eravamo ripromessi un giro veloce nella capitale della Catalogna, poi però la scoperta del restauro di un monumento del modernismo catalano ora visitabile (praticamente ogni anno c'è qualcosa di bello che riapre al pubblico), ci ha "costretti" a prolungare il nostro itinerario.
Si tratta dell'ospedale de la Santa Creu e Sant Pau, un vero e proprio ospedale costruito nel 1902 in stile modernista e funzionante fino al 2009. E' incredibile come questo gioiellino di Domènech i Montaner unisse alla bellezza architettonica le più moderne (per l'epoca ovviamente) concezioni di comfort e funzionalità ospedaliere. Purtroppo non è possibile visitarlo tutto, i lavori di restauro sono ancora in corso, e questo (forse) spiega il prezzo molto alto del biglietto (sì, glielo dobbiamo pagare noi turisti il restauro :-( ).
Ospedale de la Santa Creu i Sant Pau

Da Barcellona il nostro itinerario è proseguito per Saragozza, capitale dell'Aragona. Si tratta di una cittadina poco battuta dal turismo internazionale e forse per questo in pochissimi parlavano inglese. Il centro, abbastanza piccolo, è, come in tutta la Spagna, molto ben tenuto. I palazzi colorati sembrano sempre pitturati di fresco, le case dalle facciate impeccabili, coordinate tra loro.
A differenza di altre città spagnole, però, appena fuori dal centro ho notato una certa trascuratezza, un aspetto più trasandato e sporco, insomma non mi sono sentita a mio agio, come invece di solito mi capita al di là dei Pirenei.
Saragozza: la piazza con la Basilica e la Cattedrale e i palazzi del centro

La disponibilità della macchina ci ha permesso di spostarci in un paesino a 100 km da Saragozza, Nuevalos, dove ha sede un bellissimo complesso, il Monasterio de Piedra. Durante il percorso abbiamo constatato che l'Aragona non è solo praterie brulle e assolate (la stessa Saragozza era caldissima, da qui forse l'abitudine degli abitanti di cercare ristoro tuffandosi nella fontana della piazza principale), ma anche oasi di verde tra le montagne.
Il Monasterio di per sé non è molto diverso dai nostri, la sua particolarità è per l'appunto il bellissimo parco che, tra boschi e colline, nasconde una rete di cascatelle, ruscelli e laghi. Per motivi di tempo non siamo riusciti a vederlo tutto, ma ne vale davvero la pena. Anche qui il costo del biglietto, tra l'altro, è altino (cioè, gli Uffizi costano meno!), per cui a saperlo prima avremmo cercato di rimanere qualche ora in più, purtroppo però non conoscevamo la strada e la via tortuosa ha richiesto più tempo del previsto.
La strada verso il Monasterio e il parco

Sulla via del ritorno ci siamo fermati a mangiare in un paesino trovato strada facendo. Se non fosse che parlavano solo spagnolo e che eravamo tra le colline, con un bellissimo panorama soleggiato nonostante le otto di sera passate, il clima rustico e familiare avrebbe potuto essere tranquillamente quello di un qualsiasi paesino della nostra provincia. Poi quando Ieie si è entusiasmato per un gol della nazionale spagnola trasmesso in Tv, i vecchietti del posto l'hanno preso proprio in simpatia.
Lasciata Saragozza abbiamo fatto rotta verso una zona del tutto nuova per noi, una Spagna un po' diversa dal solito, dove le bandiere appese ai balconi (per carità anche a Barcellona è pieno del giallo e del rosso della Catalogna, ma finisce lì) chiedevano una sola cosa: Independentzia, e lo chiedevano con una lingua un po' diversa dai soliti dialetti locali.
Bandiere su calle de la Estafeta, ma potrebbero essere in una qualsiasi altra via di Pamplona

Ce ne siamo accorti già dalla nostra mattinata a Pamplona, capitale della Navarra che, pur non facendo parte della provincia dei Paesi Baschi, Basca si sente fin nel midollo.
Lo dicono i cartelli in quella lingua strana (pare sia una delle più antiche in Europa), le bandiere, i prodotti tradizionali che i camerieri assicurano essere, oltre che unici, anche buonissimi.
Altro che il tormentone "siamo come i tori a Pamplona". Noi come i tori, a Pamplona, ci siamo fatti tutta la via che a luglio viene attraversata dall'Encierro, la famosa corsa per la festa di San Firmino. Non so come la riducano in quell'occasione, ma posso assicurare che calle de la Estafeta, come tutta Pamplona, è un gioiellino.

Da lì, abbiamo proseguito la risalita verso Nord, rotta la bellissima Bilbao....

venerdì 7 luglio 2017

Le confessioni di un italiano

I classici sono da sempre una mia fissazione, quel vuoto imprescindibile da colmare a ogni costo. Un tempo ne consumavo molti di più, adesso diciamo che me ne impongo almeno uno l'anno e stavolta la scelta è ricaduta su un classicone made in Ottocento, quel Le confessioni di un italiano che portò fama a Ippolito Nievo, morto poco dopo in giovane età nel naufragio di una nave. 
Ambientato in un'Italia ancora divisa, il romanzo si snoda dal periodo che va dalla Rivoluzione francese alla vigilia della seconda guerra d'Indipendenza e narra, attraverso le memorie dell'ottuagenario Carlo Altoviti, nato nella Repubblica di Venezia, ma che spera di morire italiano, le vicende storiche, e belliche, del nostro Paese attraverso le avventure della sua vita.
Abbandonato in fasce a casa della cugina Pisana, presenza bizzosa e costante della sua vita e unico vero amore del protagonista, il giovane Carlo cresce tra la servitù del castello di Fratta, in Friuli, ed assiste allo sgretolamento di un mondo ormai al tramonto, alla diffusione di nuove idee, mentre di pari passo anche la sua vita cambia. Scoperto di avere un padre, si ritrova tra il patriziato veneziano, per poi cadere subito dopo tra i proscritti col trattato di Campoformio e girare l'Italia, un po' per caso un po' per volontà, trovandosi al centro delle vicende belliche del periodo, dalle repubbliche napoleoniche, alle rivolte del '20 e '21 fino alla prima guerra d'Indipendenza.
Tra altri e bassi Carlo dimostra soprattutto una forte morale e una dedizione alla vita e agli ideali che lo portano, anche davanti a grandi sventure, a impegnarsi e ad avere fiducia nel futuro.
Devo ammettere che all'inizio, vista l'estrema difficoltà del linguaggio, sciacquato, ammollato e intriso di verbosità ottocentesche, ho rimpianto di non aver affrontato prima questa lettura, quando magari ero ancora fresca del fraseggiare ciceroniano o del romanzare manzoniano. Poi, però, un po' come accade con la sicilianità esasperata del commissario Montalbano, ci ho preso la mano. Mi sono abituata a quei massime che significano soprattutto, all'aveva usato alla prima persona singolare e a tutti gli artifici di un tempo.
E poi, lo dico senza vergognarmi, nonostante il libro sia lontano da noi anni luce per verbosità e mentalità, devo dire che mi è piaciuto.
Se non ci si fa scoraggiare dalla lunghezza e da alcuni tempi morti, si troveranno due aspetti fondamentali nel romanzo di Nievo. Il primo è un approfondimento storico. Tutti quegli anni che sui libri di scuola sono una rassegna di date e battaglie, trovano ampio respiro nella narrazione e alcune vicende nelle quali il protagonista si trova coinvolto in prima persona, permettono al lettore di avere un quadro più chiaro di quel periodo e di comprendere meccanismi e situazioni che di solito a scuola impariamo meccanicamente senza soffermarci troppo sul come e sul perché.
Il secondo aspetto è che leggendo questo libro ci si rende conto, purtroppo, che tutto cambia affinché nulla cambi. Alcune riflessioni di Nievo, sul sistema giudiziario o sulla decadenza della Repubblica di Venezia ad esempio, calzerebbero anche ai nostri tempi, a sostegno della tesi sui corsi e ricorsi storici di cui parlava Vico.
O a dimostrazione che ci sono caratteri ereditari in questa Italia, che hanno origini antiche e forse per questo sono così difficili da estirpare.

Se Venezia era de' governi italiani il più nullo e rimbambito, tutti dal più al meno agonizzavano per quel difetto di pensiero e di vitalità morale.

Le confessioni di un italiano, Ippolito Nievo, Giunti Demetra

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venerdì 9 giugno 2017

Il ladro di merendine

Si distacca un po' dai due romanzi precedenti Il ladro di merendine, il terzo capitolo della saga di Montalbano. Prima di tutto Camilleri introduce la novità di un cliffhanger sul finale, lasciandoci con la curiosità di sapere cosa succederà tra il commissario e Livia (e ok, noi che abbiamo visto le fiction Rai già lo sappiamo, ma ammetto che il colpo di scena ha incuriosito anche me e non vedo l'ora di approdare alla quarta indagine); ma soprattutto conosciamo nuovi lati di Montalbano che si spoglia dell'aura che l'ha circondato fino ad adesso, mostrandosi per quello che è, un uomo di vizi e di virtù.
"Quando si deciderà a crescere, Montalbano?", la domanda del cavaliere Pintacuda è il sigillo sulle debolezze del commissario che, stavolta, nell'amara conclusione del libro, così in contrasto con l'umorismo dei primi capitoli, delude i suoi lettori per la sua vigliaccheria.
Ma andiamo con ordine. Siamo sempre a Vigata, un anno dopo l'indagine definita del Cane di terracotta e pochi anni dopo il primo caso che ci ha fatto conoscere Montalbano. Stretto tra il pensionamento del questore e l'odiata prospettiva di diventare vicequestore, come spesso succede Salvo si trova a sbrogliare due matasse apparentemente indipendenti: l'omicidio di un pensionato nell'ascensore del suo condominio e quello di un pescatore su di un'imbarcazione che avrebbe sconfinato in acque straniere. Sbolognata la seconda indagine con un pretesto di competenza, Montalbano si imbatte poi nel ladro di merendine che dà il nome al libro: un bambino che, per placare i morsi della fame, ruba la merenda agli allievi di una scuola elementare.
Questo terzo incontro, destinato a smuovere le acque del rapporto con Livia, sarà il fil rouge tra le tre vicende e toccherà a Montalbano usare tutta la sua abilità, ma soprattutto la strafottenza e il pelo sullo stomaco di cui è dotato, per venirne fuori sano, Salvo e con il massimo del guadagno per tutti.
Di più non si può dire, se non che questo capitolo getta luce su nuovi aspetti della vita del commissario, sulla sua infanzia, sul suo rapporto con Livia e, udite udite, sulla sua età. Insomma ne emerge un personaggio a tutto tondo, sempre più completo e complesso e di questo va dato il merito a Camilleri che si rivela, oltre a un abile tessitore di trame, esperto cesellatore di personaggi veri, e per questo amati dai lettori.

Il ladro di merendine, di Andrea Camilleri, Sellerio editore Palermo

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sabato 27 maggio 2017

40

Ti guardi allo specchio e te lo chiedi, se siano troppi. Perché quel numero pesa, ma dentro tu ti senti ancora giovane, a dispetto di quella ruga che ti si disegna al lato della bocca, e di quel segno che, sei sicura prima non c'era, si nasconde traditore sotto il mento.
Insomma, la tua adolescenza è proprio dietro l'angolo. Poi guardi il Tg e senti che Nek celebra i 25 anni di carriera e ti chiedi "Na, com'è possibile sia passato così tanto tempo, che me lo ricordo quando ha iniziato". E fai i conti. E tornano. Tu avevi quindici anni e adesso sono 40.
E allora ripensi alla giovinezza, a quei ricordi che tenevi catalogati con la precisione di un archivio e ti rendi conto che iniziano a mischiarsi come carte nel mazzo. Perché forse 40 cominciano a essere tanti, soprattutto quando tuo figlio, che è pervicacemente preciso, a ogni accenno al tuo passato ti chiede, quando, quanto tempo fa?
E poi fai i conti con tanti altri aspetti che, no, non tornano.
Perché a 40 anni cominci a fare un bilancio di quel che volevi e di quel che hai avuto.
Perché a 40 anni ti rendi conto che il tempo a venire potrebbe essere meno di quello già goduto.
Perché a 40 anni pensavi che saresti stata una donna sicura di sé e senza paure, ma forse adesso che sei matura, di paure ne hai più di quando guardavi spavalda al tuo futuro.
40 anni, sono troppi o no? Ancora non so dirlo, e sono al giorno due.
Poi penso ai miei bambini che ieri erano così eccitati come se fosse la loro festa. A Ieie, che gli altri anni mi portava il regalo nascosto in casa dai nonni, e questa volta no perché era arrivato in anticipo, e si crucciava di non avermi dato niente "E che festa è se non c'è un regalo?", o alla Lolla che mi ha chiesto cosa volessi per il mio compleanno e alla mia richiesta di un viaggio a New York ha risposto "Ma io non ho i soldini...però te lo posso disegnare!".
Guardo loro due e capisco che, al di là di quello che riserva il futuro, il mio futuro, il mio ponte verso il domani, sono loro. E allora non so se 40 sono troppi, però sono felice di poter rivivere la mia giovinezza grazie a loro.

lunedì 22 maggio 2017

Senza di lei

Quello dei pasti è, per me, uno dei momenti più temuti della giornata. Cerco sempre di mangiare prima dei bambini, con buona pace del concetto di pranzo in famiglia, poiché altrimenti, essendo spesso l'unica adulta della tavola, mi tocca interrompermi e alzarmi in continuazione a ogni "Mi dai un po' d'acqua?" "Ho finito il primo, che c'è di secondo?" "Mi tagli la carne?" "Mi sbucci la frutta?" "Ho versato l'acqua" "Mi sono sporcato di sugo", e no, non incentivo l'autonomia dei miei figli perché preferisco fare io piuttosto che dover pulire i disastri combinati.
Ma tutto questo, in fondo, è il minimo. Il motivo per cui mangio prima è che durante i loro pasti devo fare il vigile. Interdire inopportune quanto continue alzate da tavola (con annessi dispetti), dirimere litigi su chi è più veloce, più bravo, più tutto, mitigare sfottò, battute, insulti di ogni tipo che i due, ai capi opposti del tavolo, si lanciano come strali e, infine, moderare anche la chiacchiera continua che rallenta no, anzi, blocca il pasto come un cantiere in tangenziale. Nel mentre che faccio tutto questo, penso, mi chiedo e spero, che cali dall'alto una soluzione che renda il momento del pasto meno caotico e stressante.

Qualche giorno fa la Lolla è andata a mangiare da una compagna. Fin qui tutto normale, se non che Ieie quel giorno è tornato a casa muto e solingo. Abbiamo mangiato insieme e, devo ammetterlo, la situazione è stata strana. In cucina regnava un silenzio surreale, quasi angosciante, al quale non ero più abituata. Vedendo mio figlio un po' triste ho cercato di ravvivare la conversazione (sì, proprio io!) chiedendogli ragguagli sulla sua giornata e cercando spunti che innescassero la sua chiacchiera che, certo, non è irrefrenabile come quella della Lolla, ma che di solito fornisce valido supporto alla linguacciuta sorella. Ma niente, la conversazione ha ristagnato e alla fine ho lasciato perdere, intristita anch'io da quell'assurdo silenzio.
Poi la Lolla è tornata, e cinque minuti dopo si inseguivano per casa urlando e menandosi come bestie liberate dalle gabbie. Ieie, che mi aveva confidato di essere un po' geloso perché lei era stata invitata da un'amica e lui no, sembrava aver dimenticato tutto e recuperato il consueto brio post scolastico.

Ora, non arriverò a dire che il caos del pranzo mi è mancato (questo mai!), però, ecco, da figlia unica, mi trovo spesso a invidiare i miei figli. Perché hanno quello che io ho desiderato inutilmente per una vita e perché quando li vedo insieme, anche se spesso non fanno altro che litigare, sono contenta di sapere che per loro essere in due è scontato e normale e non sapranno cosa vuol dire essere l'unica bambina in una famiglia di adulti.

venerdì 5 maggio 2017

Niente e così sia

Non si viene al mondo per morire a vent'anni alla guerra.

E' un libro di filosofia Niente e così sia, il diario sulla guerra che Oriana Fallaci scrisse durante la sua esperienza in Vietnam a cavallo tra il 1967 e il 1968. E' un libro di filosofia perché, nel tentativo di rispondere alla domanda che l'aveva portata al fronte (perché gli uomini facciano una cosa così stupida come la guerra, perché si uccidano e a cosa pensino quando sono lì), partendo da Saigon e spostandosi tra foreste di palme, piantagioni di caffé, colline e trincee del Vietnam del Sud, la Fallaci scopre verità immutabili e incontrovertibili sulla condizione umana.

Sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo quando si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore; e poi accetta che migliaia di creature tutte giovani, col cuore a posto, vadano a morire come vacche al macello per la bandiera.

Il conflitto del Vietnam fu un tritacarne nel vero senso della parola, l'abbiamo imparato da una filmografia impressionante e, dopo aver visto il Cacciatore, pensavo che non si potessero aggiungere altri tasselli di atrocità a questa vicenda. Invece il libro della Fallaci conferma e amplifica tutto questo, la guerra viene vista proprio da dentro la trincea, da sotto un cielo da cui piovono bombe, in mezzo ai soldati e, in questa apoteosi del male, riusciamo a capire come i fatti, dal di dentro, assumano contorni e colori diversi. Guardiamo l'Uomo e riflettiamo con Oriana sull'assurdità del male, sulla storia che non aiuta ad evitare errori uguali ai precedenti.

La morte, sa, ha un valore relativo. Quando è poca, conta. Quando è molta, non conta più.

L'orrore della Shoa era proprio dietro l'angolo, ancora indelebile, eppure gli uomini sembravano aver già dimenticato.
Nel suo libro, forse un po' lungo, perché 400 pagine di guerra son dure da mandar giù, Oriana ascoltò tutte le voci, generali e umili soldati, americani, vietcong, nordvietnamiti e sudvietnamiti spettatori del conflitto, per fornire al lettore, e a se stessa, un quadro completo. Impressionante è come emerga, da ambo le parti, la paura e la stanchezza dei poveri soldati, mandati a morire senza un perché da uomini più potenti e grandi di loro che, però, stanno al sicuro, e a morire ci mandano gli altri.
A fare da sfondo alla bruttezza creata dall'uomo, un Paese che appare invece di una bellezza fiabesca, con i suoi fiumi, le foreste e le colline di un verde esotico e per noi sconosciuto, martoriati da un martellare di fuoco, bombe, bengala e da una quantità di armi che nemmeno immaginavamo esistessero. Proprio sulle armi, sul piccolo proiettile dell'M16, c'è una delle riflessioni più belle della Fallaci, e solo per questa bisognerebbe leggere il libro. Per chiederci, tutti, quanto siamo innocenti. Per imparare qualcosa sul concetto di responsabilità.
In conclusione la Fallaci risponde alle domande che l'avevano portata al fronte e, soprattutto, alla domanda postale dalla sorellina prima della partenza, che è l'anima del libro "La vita cos'è?". La risposta Oriana ce la dà sul finale quando, tornata dal Vietnam e in missione in Messico, rischiò la vita durante una manifestazione studentesca. Io ovviamente non la anticipo, vale la pena andare al fronte con Oriana per capire la vita cos'è.

P.S.
Ho poi scoperto che anni dopo Oriana Fallaci tornò in Vietnam, non tra le truppe americane, ma tra quelle nordvietnamite, per vedere la guerra dal fronte opposto. Gli articoli frutto di quell'esperienza sono ora raccolti nel volume Saigon e così sia

Niente e così sia, di Oriana Fallaci, Best Bur

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

martedì 2 maggio 2017

1° maggio

"Mamma lo sai quale casa mi piace di più tra la nostra, quella dei nonni e quella dei nonni al paesino?".
"No Lolla, quale?".
"Quella al paesino. E sai perché?".
"Perché?".
"Perché è vicina al mare. E perché possiamo uscire sempre. Solo quando piove restiamo a casa, ma per poco".
Caro paesino, cara casa, cosa avrete di così speciale non si sa, ma se anche la mia nonna materna, milanese, dopo la fame e la paura della guerra, approdò in questo posto dimenticato dagli uomini e le sembrò il Paradiso, un motivo per cui di generazione in generazione ci fate innamorare ci sarà.
Ancora oggi, nonostante gli uomini abbiano impiegato camion di cemento per nascondere quest'angolo di Paradiso creato da Dio in terra, c'è qualcosa di magico in questo paese lontanissimo da tutto, chiuso tra la scogliera e il mare più blu. Qualcosa che ti entra nel cuore e ti rapisce per sempre.
Ieri, a distanza di mesi, siamo tornati al paesino approfittando della prima bella giornata di sole regalataci da maggio dopo il freddo aprile. Poche novità, nemmeno piacevoli, ma la sensazione di pace e benessere è stata impagabile. Ho guardato con desiderio la cara terrazza, la Lolla ha chiesto dove fosse il dondolo, e mi sono immaginata lì, immersa in qualche buon libro, il mare davanti e il sole sopra di noi.
Andando via il venticello di scirocco mi ha persino solleticato con il profumo del mare, quel mix di alghe fresche e salsedine che d'estate è così difficile percepire, forse perché ci sono troppe narici bramose per l'aria.
E' stato bello, direi riconciliante.
E adesso dobbiamo solo aspettare l'estate.