venerdì 27 maggio 2016

Penelope alla guerra

In una Roma anni '60, la ventiseienne Giovanna è una sceneggiatrice molto apprezzata. Bella e determinata, preferisce farsi chiamare Giò, perché è un nome fresco, frizzante e ben le si addice visto che ha deciso che non farà la fine di tante donne, non stirerà mai camicie e non piangerà. Ma Giò è anche un mix di contraddizioni, cinica e ingenua, indipendente e bisognosa d'amore, donna e bambina, che esploderà quando il suo produttore le regalerà una vacanza di due mesi negli Stati Uniti per preparare una nuova sceneggiatura.
In questa terra promessa, sognata sin da quando, dodicenne, ascoltava col cuore in preda agli spasmi del primo amore, i racconti di un giovane soldato americano in fuga dai tedeschi e mai più rivisto, Giò si imbatterà in Richard, che fragile, sentimentale e infantile, è il suo esatto opposto. Nascerà una storia tormentata, complicata dall'immischiarsi dell'amico Bill, e che, per un breve tempo, farà di Giò un'altra persona, un'amante votata al proprio uomo più che una donna indipendente, fino al drammatico, inaspettato finale.
Scritto nel 1962, Penelope alla guerra è il primo romanzo pubblicato da Oriana Fallaci. Si sente nello stile ancora acerbo, nel fraseggiare asciutto (sebbene comprensibile visto che la Fallaci era anzitutto una giornalista), nella storia che vola via veloce senza indugiare troppo su situazioni e scene.
Eppure il romanzo mostra anche tutta la bravura della Fallaci, che riesce sin da subito a catturarti e incuriosirti e che dimostra grandi capacità introspettive e acume. Formidabili, a mio avviso, le descrizioni, o meglio l'analisi che fa degli Stati Uniti. Di questo Paese, che all'epoca emanava sull'Italia una luce di ricchezza, prosperità e glamour, la Fallaci riesce già a cogliere la bellezza e le enormi contraddizioni, e, di più ancora, riesce a prevedere come la modernità americana influenzerà il futuro del Vecchio Continente, con una lungimiranza e una lucidità che fa sembrare impossibile sia stato scritto oltre cinquant'anni fa.
La storia di Giò, che nell'America trova quasi un alter ego naturale, è, in sintesi, la storia delle donne appena uscite dalla guerra, divise tra un passato "casalingo" e un futuro ricco di nuove opportunità, con tutti i compromessi e le difficoltà che questo avrebbe comportato. Forse per questo Giò è tanto moderna. Nel finale, sola nella sua casa, sembra rappresentare tutte noi, costrette a ingoiare lacrime per poter essere tutto ciò che vogliamo.

Penelope alla guerra, Oriana Fallaci, Bur Rizzoli

domenica 8 maggio 2016

Festa della mamma e Comunione

Questa sono io, ritratta in occasione della mia festa, la festa della mamma. E siccome è maggio, finisce che si festeggia approfittando della Comunione di una cuginetta, in una delle chiese principali della mia città, quella in cui sono cresciuta e che, anche se adesso vivo nel vicino paesello, non posso fare a meno di chiamare mia. 
La chiesa è stipata, 40 bambini con rispettive famiglie, più frotte di turisti. Si incontra un po' di tutto. Il futuro compagno di scuola, l'attuale compagna di danza, un amichetto delle arti marziali, cugini lontani, vicini del paesello. Non manca nessuno. E a fine cerimonia, i saluti sono di rito. L'amico degli amici, il parente dei parenti. Una zia, che zia non è, non tua almeno, ma per la proprietà transitiva della cuginanza tendi a considerare così.
"A, ma questa è tua figlia? Che amore. Ma guardala che carina, a chi somiglia? E sì io vedo una somiglianza. Come sei bella. Uh come sei elegante...E lui è il grande, che ometto, che bel bambino". Ieie nel frattempo si allontana. "Eh sì bello pure lui. Ma lei è un'altra cosa".
Ecco, se da grande mio figlio diventerà un serial killer di secondogenite di fratelli maschi, per favore non date la colpa a sua madre.
A proposito, auguri a tutte le mamme. E complimenti alle maestre della Lolla per questa divertente poesia. L'ho trovata anche molto vera: non c'è una frase che non abbia saputo collegare a me, o a qualche mamma di mia conoscenza.

Una mamma moderna
La mia mamma è tanto bella,
si prepara come una stella:
si tinge i capelli, si mette il trucco,
e il mio papà...rimane di stucco!

Pulisce la casa in continuazione,
con i prodotti in promozione,
tira i panni dalla lavatrice
e, se sono bianchi, è strafelice.

Prepara pranzetti prelibati
con i cibi surgelati.
Al supermercato riempie il carrello
di detersivi, bibite e girelle.

Fa la tassista per la palestra,
i compleanni e altre feste.
Guida la Panda o anche la Skoda
senza curarsi se è fuori moda.

Ha il computer e non lo usa:
non è portata...si sente confusa!
Usa tanto il telefonino,
anche per parlare con la vicina.

Conosce tutte le canzoni
di D'Alessio e di Baglioni,
di Renato Zero e di Pausini,
tutti suoi beniamini.

Io sono contento
che la mia mamma sia così
e pagherei per vederla ogni dì.
Vorrei vederla mattina e sera,
non per un giorno, per la vita intera.

Per coprirla di infinite carezze,
di tanti bacini e gentilezze,
per ringraziarla
per quel che ha fatto
per questo figlio un po' distratto

che non ha colto in tempo reale
d'avere...una mamma davvero speciale!


martedì 3 maggio 2016

Pulendo piselli

Sbucciando piselli arriva lei, pronta a mettere a disposizione anche le sue manine. E che fai, le dici di no? Dopo tutto quello che ti hanno insegnato sul metodo Montessori, la motricità fine e le attività di vita quotidiana?
Aprendo piselli può succedere che la nonna, vedendo mamma e figlia intente alla sgranatura, si commuova ricordando di quando anche lei, con sua mamma e sua sorella, passava il tempo in quel verde sgranellare.
Sgusciando piselli spieghi a tua figlia come fare e le ricordi di controllare che non ci siano vermi. E lei si diverte tanto. Finché non spuntano i vermi. E allora...si diverte anche di più.
"Questa è Lili, Lubi, Gigo" "Ieie guarda i vermini si abbracciano" "No Lili, non andare di là. Aspetta, ti ho costruito una casa con la buccia" "Ecco, vi metto un pisellino da mangiare" "No mamma, non buttare i vermini".
Pulendo piselli a un certo punto non si capisce più nulla, fra pallini verdi che volano per la cucina, semi bacati selezionati come buoni e semi integri dati in pasto ai vermini, ma mai pulizia della verdura fu più divertente. Speriamo solo che in questa confusione, Lili e Lubi non siano finiti nella zuppa.

lunedì 2 maggio 2016

Il sangue dei vinti

Non è stato facile portare a termine la lettura de Il sangue dei vinti, Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile. Quella sfilza di esecuzioni che ti si para davanti come un elenco senza fine, è un boccone duro da digerire. Non solo fucilazioni o impiccagioni punirono i fascisti, o presunti tali, all'indomani della Liberazione, ma miriadi di atrocità che spesso niente avevano a che fare con la vendetta per le angherie subite durante la dittatura mussoliniana né, tanto meno, con la voglia di giustizia.
E' risaputo che Giampaolo Pansa, nonostante la sua nota militanza a sinistra, abbia ricevuto molte accuse in seguito alla pubblicazione di questo libro. Una su tutte, quella di aver voluto fare del revisionismo, con storici titolati che l'hanno criticato per aver vestito panni che non gli competono. E tuttavia forse nessuno meglio di lui poteva affrontare questa ricerca, proprio perché non aveva interesse a fare del revisionismo. 
Nella sua analisi, che altro non è che un resoconto, parziale a suo dire, delle morti provocate dalla guerra civile seguita alla Liberazione, Pansa parte dal presupposto che in ogni guerra è normale che i vincitori si vendichino degli sconfitti, e i fascisti avevano molto da farsi perdonare, Ma si chiede anche se sia stato giusto, da parte dei vincitori, comportarsi come i fascisti e i nazisti, se avesse un senso "uccidere tante persone a guerra finita. Per lasciarsi alle spalle una scia di odio e di rancori che, dopo quasi sessant'anni, non si è ancora cancellata". Ed è proprio questa domanda a tormentare il lettore: qual è il punto in cui la giustizia lascia il posto alla vendetta? E ancora, da quali ceneri è sorta la democrazia che conosciamo?
Consumatesi spesso senza una condanna da parte di un tribunale legittimo, le esecuzioni post 25 aprile colpirono a volte nel mucchio, "bastava un sospetto, anche se non provato, per finire sottoterra". A Torino per esempio, toccò a un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche; a quattro innocenti, tutti scambiati per il colonnello fascista Cabras; a una madre colpevole di avere un figlio diciassettenne nella Brigata nera. Mogli, genitori, fidanzate, figli di persone che a vario titolo erano legate al fascismo, uomini e donne la cui unica colpa era quella di avere avuto la tessera del partito, fecero la stessa fine di aguzzini, comandanti e spie. Non c'era pietà per nessuno, nemmeno per i bambini. Così, nel genovese, i partigiani che cercavano un colonnello delle Gnr, in mancanza del reo, trascinarono a morte la moglie e i due figli di 14 e 8 anni.
A pagare il prezzo maggiore, come sempre, le donne, alle quali toccava una sorte più crudele "lo stupro, la violenza sadica, l'umiliazione terribile di essere data in pasto alla gente inferocita, con la testa rapata e dipinta di rosso".
In Romagna, poi, l'idea che la rivoluzione comunista fosse imminente, portò a una vera e propria lotta di classe. Non erano solo i fascisti a finire ammazzati, ma anche preti, proprietari terrieri, imprenditori. A volte uomini che avevano aiutato i partigiani, o ex partigiani stessi, che non erano d'accordo sui metodi adottati o che potevano rappresentare scomodi testimoni.
Ma perché, si chiede Pansa, i partiti, che tramite le formazioni partigiane avevano combattuto contro i nazifascisti, non seppero tenere a freno la voglia smodata di vendetta?
Sicuramente tedeschi e fascisti avevano mostrato una ferocia particolare che gridava giustizia, ma, aggiunge Pansa, c'era anche il fatto che molte formazioni partigiane erano poco strutturate, così che singoli gruppi poterono agire senza controllo, in barba a vertici locali della Resistenza incapaci di far rispettare l'ordine e la legalità. Tuttavia è anche vero che, con la vittoria alle porte, nelle formazioni partigiane entrò "il fiotto della razzamaglia: avventurieri, disertori, profittatori, gente che aveva qualcosa da far dimenticare. A questa corsa non si opposero i partiti. Nell'imminenza della spartizione del potere, ciascuno cercava titoli da gettar sulla bilancia, per affermare la preminenza della propria parte...Su suggerimento dall'alto, i comandanti accettarono chiunque si presentasse". Si ripropone quindi il quesito iniziale. A ricostruire l'Italia contribuirono certo molti uomini, e politici, di buona volontà, ma è anche vero che i partiti, pur di fare numero, non guardarono in faccia ai propri sostenitori, né alle loro intenzioni. Un viziaccio tutto italiano ancora presente nel Dna della nostra politica.

Il sangue dei vinti, Giampaolo Pansa, Pickwick