venerdì 21 dicembre 2018

Storia di Roma

Non ho scoperto nulla, con questo libro. Esso non pretende di portare 'rivelazioni', nemmeno di dare un'interpretazione originale della storia dell'Urbe. Tutto ciò che qui racconto è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale. [...] A qualcuno potrà sembrare un'ambizione modesta. A me, no. Se riuscirò ad affezionare alla storia di Roma qualche migliaio di italiani fin qui respinti dall'accademismo che gliel'ha raccontata prima di me, mi riterrò un autore utile e fortunato.
Queste le parole con cui Indro Montanelli chiudeva nel 1957 l'introduzione alla sua Storia di Roma, primo capitolo di una lunga cavalcata nella Storia d'Italia che si sarebbe conclusa molti volumi dopo.
Mi è sempre piaciuto Montanelli, quel modo di scrivere schietto eppure preciso, la sua acuta capacità di analisi. Mi è sempre piaciuta la storia, complici anche delle brave professoresse che mi hanno abituato a guardarla non come a un noioso elenco di fatti, ma a un intreccio di vite umane che hanno costruito il nostro presente.
E così che ho deciso, a dieci anni di distanza dalla lettura della suddetta Storia d'Italia, di concludere questo viaggio appassionante con l'ultimo volume che mancava all'appello e che finora avevo lasciato in disparte ritenendo, dopo cinque anni di liceo classico, di saperne fin troppo sugli antichi romani.
Ed è proprio qui che mi sbagliavo, perché il pregio del lavoro di Montanelli è di raccontare fatti stranoti senza mai essere banale, bensì fornendo una visione d'insieme così dettagliata e un'analisi cause-effetti degli avvenimenti storici, tali da farti vedere il passato sotto una luce nuova. Come se non lo avessi mai studiato prima.
A Montanelli bisogna riconoscere di aver prodotto un racconto esaustivo, perché nessun aspetto dell'antica Roma viene tralasciato, dai costumi alla religione, dalla vita nei villaggi alla letteratura, ma soprattutto bisogna levarsi il cappello davanti al suo lavoro minuzioso di ricostruzione. Non ho idea di quanti libri debba aver letto per poterci dare ritratti quanto più fedeli possibile dei nomi illustri di quel passato, ma sicuramente gli va dato atto di aver davvero risposto al suo intento, ovvero di mettere la storia romana al livello di tutti noi comuni mortali, che non vuol dire trasformarla in un feuilleton da quattro soldi, ma renderla comprensibile (a tutti) e accattivante per un pubblico moderno e variegato.
Sarà per le riflessioni ironiche con cui di tanto in tanto condisce il racconto

E Plutarco racconta che poi scoppiarono in tale urlo di entusiasmo che un branco di corvi che incrociavano sulle loro teste piombarono giù, morti. Se anche tutte le altre sue storie Plutarco ce le ha raccontate con lo stesso scrupolo di verità, c'è da stare allegri.

sarà perché la storia di Roma è più attuale di quanto sembri. Anzi, a tratti mi è sembrato di vedere la nostra, di storia.

Su questa crisi economica se innestava un'altra, sociale e morale: quella di una società che, abituata a basarsi sui suoi piccoli e liberi coltivatori, sempre più ora veniva affidandosi al saccheggio all'esterno e alla schiavitù all'interno.

Nella burocrazia c'erano ancora funzionari capaci e onesti. Ma la maggior parte erano dei predoni incompetenti che, per avere un posto nell'amministrazione di una provincia, non solo rinunciavano agli stipendi, ma lo pagavano, sicuri di potere, in un anno, abbondantemente rifarsi.

Il matrimonio con mano, cioè quello che non ammetteva il divorzio, era praticamente scomparso. Figli non se ne volevano, perché sarebbero stati un impaccio. Essi erano diventati ormai un lusso che solo i poveri potevano consentirsi. Le spose cercavano, come oggi si direbbe, 'evasioni'. E le trovavano soprattutto nelle tresche amorose e nella cultura, che ormai cominciava a diventare un fatto mondano e di salotto.

L'inizio della fine di Roma coincide con la scomparsa della Repubblica, l'Impero, per Montanelli, è solo una lunga agonia, e pazienza se ci ha lasciato un'eredità artistica superiore, è all'austera e sobria Res publica, all'operosità disinteressata dei suoi membri, secondo l'autore, che dobbiamo riconoscere quei principi ispiratori delle nostre democrazie, quella grandezza che fece di Roma caput mundi.
Ho veramente apprezzato questa lettura e la consiglio a tutti. A chi ama la storia e vuole riviverla attraversa una narrazione appassionata e appassionante e anche a chi la storia, sui banchi di scuola, l'ha dovuta mandar giù di traverso e poi non ne ha più voluto sapere.
La storia, raccontata da Montanelli, ha un sapore più gustoso. Provare per credere.

Storia di Roma di Indro Montanelli, Corriere della Sera

N.B.
La Storia di Roma di Montanelli è solo uno dei titoli che compongono la Storia di Italia (alcuni dei quali scritti a quattro mani da Montanelli e Roberto Gervaso e Montanelli e Mario Cervi). L'edizione in mio possesso, del 2004, si compone di 14 volumi, ma il numero dei libri è maggiore, visto che alcuni volumi ne racchiudono anche due o tre assieme.
Recentemente il Corriere della Sera ha pubblicato una nuova edizione dell'opera.

Questo post partecipa la Venerdì del libro di HomeMadeMamma

giovedì 13 dicembre 2018

E' per te il 13 dicembre

E poi quel pensiero che aspettavi all'inizio dell'anno scolastico e che non arrivava, si palesa all'improvviso mentre guardi tuo figlio davanti allo specchio e pensi che compirà dieci anni.
Già. Tra meno di dieci anni lui sarà grande e avrà già scelto la sua strada. Eccolo allora quel pensiero che punge il cuore: non mi restano che una manciata di anni prima che Ieie esca da questa casa diretto chissà dove. Possibile che il tempo rimasto sia meno di quello già trascorso?
Dove sono volati via questi dieci anni?
E poi, dieci anni, sono troppi o sono pochi?
Domande senza risposta.
Che a pronunciarli e a vederli sui volti che erano giovani nelle foto e adesso lo sono un po' meno, dieci anni sembrano un tempo di tutto rispetto.
Ma quel tempo è volato.
Però, a pensarci bene a tutta la strada che abbiamo fatto, agli ostacoli che abbiamo superato, ai pianti,  alle febbri, alle preoccupazioni e ai lunghi pomeriggi da inventare, io rivedo ogni singolo mattoncino che ho incastrato e, no, a guardarlo da vicino il tempo non è volato.
Quel bambino boccoluto è un ricordo lontano che non so come, ha lasciato il posto a un ragazzino dai pensieri profondi e dall'animo infantile.
Quello stesso ragazzino che, giorni fa, trovando il soldino, ma anche il dentino ancora sul comodino, ha dato per buona, se non ottima, la spiegazione della mamma "Tesoro, il topolino non ha fatto in tempo a prendere il dentino: deve essere stato disturbato da tua sorella che stanotte ha vomitato". Quel bambino che si unisce ai compagni nel dire di non credere a Babbo Natale e si sente rispondere "Non è vero tu ci credi, me l'hai detto".
Quel ragazzino che si lamenta di non poter uscire da solo come gli amichetti, ma che poi ha paura persino di andare da solo dalla macchina del papà alla chiesa.
Dieci anni fa il mio cammino di mamma è iniziato in una tersa e soleggiata mattina di dicembre, con un'ambulanza a sirene spiegate e una placenta traditrice.
Dieci anni fa ho visto mio figlio, un minuscolo essere di 30 settimane e 1,3 chilogrammi e non l'ho potuto abbracciare.
Dieci anni fa ho imparato subito che il cammino di madre è fatto di salite.
Dieci anni fa c'erano paure che ancora ricordo come fosse ieri. Dieci anni fa il pensiero della prematurità ha segnato a lungo il mio essere madre e il guardare a mio figlio.
Pensavo che quell'etichetta ci avrebbe contraddistinto per sempre.
E, a un certo punto, non ci ho pensato più.
Pensavo che il fatto di non aver potuto portare mio figlio a casa con me, di non averlo potuto abbracciare per settimane, di averlo lasciato quasi due mesi in una incubatrice, avrebbe tracciato un solco indelebile nel nostro rapporto.
Ma anche quel pensiero, adesso, sbiadisce.
Gli affanni passano.
Quel che resta è un figlio più grande. E l'amore di sempre.

venerdì 7 dicembre 2018

Natale senza Natale

Anche per queste festività, come ogni anno, i bambini stanno preparando con la scuola i canti natalizi che verranno proposti ai genitori la mattina dell'ultimo giorno prima delle vacanze.
Ora, non è che queste canzoni in genere parlino tanto di nascita, presepe, né di Gesù, probabilmente per avere un tono politically correct, tuttavia quanto meno fino allo scorso anno erano a tema natalizio (che poi cosa sia il tema natalizio senza Gesù, sarebbe argomento da discettare a lungo). Comunque.
Quest'anno, però, abbiamo raggiunto il top, perché le canzoni in rassegna...non parlano nemmeno di Natale. Cioè, a parte la prima in cui si dice che Natale è pace, amore e festa di tutti, per il resto il concetto sembra essere evaporato in testi su fratellanza, amicizia e pace. Ora, tutte cose bellissime, non lo nego, ma che si sarebbero potute cantare anche per la fine dell'anno scolastico o, perché no, in occasione del 25 aprile, per dire.
A cambiare il solito copione, immagino, il fatto che quest'anno, per la prima volta, la scuola ospita due alunne straniere, figlie di famiglie di rifugiati accolte al paesello.
Probabilmente, immagino di nuovo, non sono cattoliche, né cristiane, e per non farle sentire a disagio, i canti natalizi sono stati trasformati in un concerto sulla fratellanza, dove si parla di accogliere chi viene da lontano, di nostalgia per il Paese che si è lasciato, di un albero, che solo un accenno veloce fa intuire sia di Natale, fatto di chicchi di caffé, sombreri e koala, insomma, multiculturale, perché la globalizzazione ormai investe pure gli abeti.
Ora, io non mi ritengo una fanatica, non sono una che vuole imporre le sue tradizioni agli altri, non mi straccerei le vesti neppure se togliessero l'ora di religione da scuola, però se i canti di Natale s'hanno da fare, quanto meno che parlino di Natale. Sono io quella in difficoltà, adesso, perché da credente vedo la scuola propinare ai miei figli, infiocchettato come un pacco regalo, qualcosa che col Natale non c'entra un bel niente. Che piaccia o no, il Natale è la nascita di Gesù, del Dio fatto uomo, e so che ormai il marketing spinto ne ha fatto una festa commerciale, ma vedere che anche la scuola insegna questo ai miei figli, mi offende profondamente.

Avrei preferito che i canti non si fossero fatti, tanto le occasioni non mancano e i bambini possono rimediare con quelli organizzati dalla parrocchia. E, direbbe qualcuno, ma poi avrebbero dato la colpa agli stranieri, avrebbero detto che per loro dobbiamo cambiare le nostre tradizioni.
Ma il punto è proprio questo: dubito che i genitori delle nuove alunne abbiano chiesto di modificare i canti e non penso nemmeno che si sarebbero offesi se i bambini avessero cantato le solite canzoni che (ripeto) tra Jingle bells e We wish you a merry Christmas, non è che parlassero tanto di Gesù: la verità è che i primi a vergognarci di quel che siamo, i primi pronti a cambiare le tradizioni, siamo proprio noi.
E, se devo essere sincera, dubito che l'integrazione possa passare dal mistificare noi stessi. Non è giusto chiederlo a chi cerca accoglienza in Italia. E non dovremmo farlo neppure noi.

venerdì 16 novembre 2018

Il libro dei Baltimore

Incontriamo i Baltimore, brillante avvocato lui, bellissimo medico lei, un figlio, Hillel, che è un concentrato di intelligenza e sagacia; residenza nell'esclusivo quartiere di Oak park, vacanze negli Hamptons: tutto questo non ha fatto che alimentare nel giovane nipote Marcus Goldman (sì, proprio lui, il protagonista de La verità sul caso Harry Quebert!) una sorta di venerazione. I Baltimore altro non sono che i Goldman di Baltimora, ovvero il ramo più fortunato e facoltoso della famiglia di Marcus, che appartiene invece ai Goldman di Montclair, alias comuni mortali.
Sin da ragazzino, affascinato dal tenore di vita, ma soprattutto dal carisma dei parenti del Maryland, Marcus ha dedicato ogni festività e ogni vacanza scolastica ad andare a trovare zii e cugini. Cugini, sì, perché per tutti, i Goldman erano quattro. Con loro viveva anche l'orfanello Woody che, dopo aver aiutato Hillel ad affrontare un gruppo di bulli particolarmente aggressivi, si era legato a quest'ultimo ed era stato accolto come uno di famiglia.
Anche Marcus entra subito in sintonia con Woody e tutti e tre, a ogni vacanza, ricostituiscono la gang dei Goldman. La storia di questa amicizia Marcus ce la racconta partendo a ritroso dal 1989 e subito intuiamo che qualcosa, nel tempo, è cambiato. C'è lo spettro di una Tragedia che è entrata nelle loro vite e il racconto è un conto alla rovescia, inframmezzato da squarci di presente e passato prossimo, fino a questo avvenimento. C'è anche una donna, Alexandra, che Marcus ritrova per caso dopo tanto tempo e che è stata una delle poche cose che i tre ragazzi non hanno potuto condividere.
E' un libro che si legge tutto d'un fiato, Il libro dei Baltimore, perché le sue 500 e più pagine vanno giù che è una bellezza. Oltre che dotato di una scrittura piacevole, Dicker si dimostra maestro nell'arte di tener desta l'attenzione del lettore con piccoli trucchi e stratagemmi. Il conto alla rovescia sulla Tragedia, il cui fantasma aleggia per tutto il romanzo, il racconto di fatti che, ci dice, prepararono il terreno a questo fatidico evento e altre domande e dubbi disseminati qua e là. Gli si perdona persino di non aver approfondito alcuni legami tra i personaggi, che forse avrebbero meritato qualche spiegazione in più, e di non aver fornito descrizioni più precise dei protagonisti. La storia, comunque, va avanti e intriga con un finale che, più che un colpo di scena, invita a riflettere. Perché le cose (e le persone) non  sono sempre come appaiono, anche quando crediamo di conoscerle come noi stessi. Perché il giudizio degli estranei, per quanto carente di indulgenza, può essere più azzeccato di quello di chi ci vuole bene. Perché la forma, per essere perfetta, deve avere una sostanza che le corrisponda e la famiglia rimane una delle principali risorse e anche dei più grandi misteri della nostra società.

Il libro dei Baltimore di Joel Dicker, La nave di Teseo, traduzione di Vincenzo Vega

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

lunedì 12 novembre 2018

Make up for dummies

Non so se succede solo a me, ma ogni qualvolta vado a ricomprare un prodotto per il make-up, che sia un rossetto o un fondotinta, mi imbatto in un restyling di tutta la gamma che mi costringe a cambiare colore e modello.
E' la legge del mercato, bellezza, se non t'inventi qualcosa di nuovo, perdi clienti.
Mah, sarà. Comunque, questa  non è storia recente, che adesso mi trucco poco e un prodotto mi dura mesi e anni e ci sta che poi non lo ritrovo più, anche quando da ggiovane mi truccavo ogni giorno, il finale non cambiava.
Ricordo quando scoprii con orrore che l'azienda dalla quale mi rifornivo di fodotinta&cipria aveva rifatto tutto: packaging, linee, colori.
"Non si preoccupi - mi disse la commessa - prenda il numero 2 come prima, tanto la numerazione non è cambiata". Fu così che dopo il trucco sembravo essere appena uscita da una seduta di lampada. Quarantamila lire buttate e la scelta, da allora, di ripiegare su prodotti poco costosi, ché non ne valeva la pena. Quindi, a conti fatti, l'azienda perse ugualmente una cliente.
Poi, a tutto questo, si aggiunge il fatto che ormai sono vecchia dentro. Di novità non ne capisco nulla e vado in cerca delle solite quattro cose che adoperavo anche vent'anni fa.
Tipo che qualche settimana fa cercavo una semplice matita per gli occhi e la commessa deve avermi vista in difficoltà tra matite morbide, resistenti all'acqua, sfumabili, interno occhio, esterno occhio, kajal e compagnia cantante, e dopo dieci minuti che me le rigiravo tra le mani è venuta a chiedermi se avevo bisogno d'aiuto (o così o forse ero una ladra). Quasi trattenendo le lacrime le ho spiegato che volevo una semplice matita nera per le palpebre, possibilmente che non si sciogliesse dopo due minuti (che quella che avevo, super professionale consigliatami da un'altra commessa, mi faceva questo effetto panda triste così avvilente).
E niente io mi guardo pure i tutorial su Internet cercando di farmi una ragione della modernità. Di solito digito trucco acqua e sapone o trucco veloce, ma ho capito che dovrei scrivere piuttosto truccarsi con meno di dieci prodotti o trucco senza ipotecare la casa, perché oggi il numero di roba che devi stratificarti in viso per essere minimamente decente si può misurare solo con i numeri periodici.
Blush, primer, BB cream, foundation, face base, face fluid, ma che è? mi chiedo, cosa ne è stato del semplice (e comprensibile) binomio cipria e fondotinta? Guardo stordita tutta sta mercanzia e mi sento come quando qualcuno parla del suo lavoro spiegando di essere un account manager un consultant o un controller (magari con un bel junior davanti a mo' di titolo nobiliare) e mi chiedo perplessa "cioè in pratica che fai?" (che poi, diciamocelo, ancora oggi i nostri bambini alla domanda "che vuoi fare da grande?" è più probabile rispondano l'astronauta o il parrucchiere che il junior consultant, e mi sa che loro hanno capito tutto). Comunque, tornando al make up, dopo essermi aggiornata capisco appieno perché adesso mi trucco molto meno che da giovane, nonostante forse necessiterei di qualche mano di intonaco in più rispetto al passato.
Non è una questione di tempo che manca, di figli che non ti concedono qualche minuto per te, no, la verità è un'altra. Dopo aver capito che non sarò mai in grado di stendere tutti quei prodotti nell'ordine e nel modo giusto, dopo che constato che il mio miglior risultato sarà sempre ben al di sotto del minimo sindacale oggidì richiesto, dopo che mi rendo conto di aver sempre e comunque un aspetto un po' retrò e un po' vintage col mio trucco stile fine anni '90, ripiego sul vero e unico maquillage acqua e sapone: quello che non ha traccia di make up.



venerdì 2 novembre 2018

2 novembre

"Chi è questa mamma?".
"Una zia del nonno, una sorella di mio nonno".
"E quella?".
"E' la zia L. non te la ricordi Ieie?".
"Me la ricordavo diversa".
"Perché negli ultimi anni era malata, ma io la ricordo così".
"E quest'altra signora che ha il suo stesso nome?".
"La mamma del nonno, mia nonna".
"E chi sono questi tre che si chiamano tutti Vito?".
"Uno è il nonno del nonno. L'altro è mio nonno...".
"Si chiamavano allo stesso modo?".
"Sì".
"Il papà del nonno è nato...nel '98!?".
"Nel 1898".
"Milleottocento!!!??? E l'ultimo Vito?".
"Era mia fratello".
"Perché non c'è la foto?".
"Perché è morto appena nato".
"Appena nato?".
"E certo Lolla guarda: 24 marzo 1980-11 aprile 1980 nemmeno un anno".
"A dire il vero, Ieie, nemmeno un mese".
"Se non fosse morto avrei uno zio".
"Già".

venerdì 26 ottobre 2018

Leggiamolo insieme-Harry Potter e il prigioniero di Azkaban

Con Harry Potter e il prigioniero di Azkaban si entra nel vivo del ciclo del maghetto di Hogwarts. Perfettamente congegnato come gli ingranaggi di un orologio (e il paragone non è casuale), rappresenta la chiave di volta della storia di Harry, là dove passato e presente si congiungono per dare forma a quell'architrave che dovrà reggere tutti i capitoli successivi.
Al suo terzo anno alla scuola di magia e stregoneria, Harry solo in questo capitolo non dovrà vedersela con Voldemort, ma con un pericoloso criminale fuggito da Azkaban, la prigione dei maghi, tale Sirius Black, accolito del Signore Oscuro che pare cerchi proprio Harry per completare ciò che Voldemort, a suo tempo, non era riuscito a compiere. E' così che Hogwarts si ritrova presidiata dalle guardie di Azkaban, i terribili Dissennatori, e Harry, quasi controllato a vista, viene ammonito a non cercare di catturare Sirius Black (ma perché poi dovrebbe farlo?). Niente avventure, quindi?
Neanche per sogno. Ci penseranno una mappa magica, un nuovo professore di Difesa contro le arti oscure e un'inattendibile professoressa di Divinazione con la fissa per le sciagure, a movimentare la vita al castello e a creare una trama che ormai prende il largo e diventa di ampio respiro. Spiegando e gettando nuova luce su avvenimenti passati, alcuni già noti altri inediti per il lettore, seminando dettagli fondamentali per il prosieguo della storia, creando un mistero dove niente è come sembra e dove le carte si rimescolano di continuo con gran sorpresa, e goduria, del lettore.
Il finale è un puzzle dove finalmente le tessere si riposizionano correttamente e lascia già intravedere il filo conduttore del prossimo volume.
Sebbene ami molto questa storia, temevo fosse un po' troppo complicata e cervellotica, invece i bambini hanno mostrato di comprenderla e, soprattutto, di gradirla. In effetti tra ippogrifi, tornei di Quidditch, nuove formule magiche e personaggi, le sorprese sono così tante che i piccoli non restano mai delusi.
Se qualche cosa li ha disorientati è stato invece il fatto che il film omonimo non riporti tutta la storia, ma abbia dovuto necessariamente alleggerire la trama per evitare di durare quattro ore o più. Per i bambini risulta ancora difficile comprendere questo concetto, per loro è inaudito che, ad esempio, le appassionanti partite di Quidditch raccontate nel libro non siano tutte presenti nel film, ma questo non ha impedito loro di rivedere Harry Potter e il prigioniero di Azkaban decine e decine di volte.
Se devo fare un appunto al film, che comunque riesce a dare adeguato sviluppo alla trama e si avvale di una fotografia bellissima che oltre a illustrare perfettamente la storia, ne sottolinea con arguzia alcuni particolari (fate caso agli orologi!), è che il racconto sul padre di Harry ed i suoi amici viene semplificato eccessivamente. E' una parte che dà spessore al libro ed è un peccato che non trovi abbastanza spazio nel racconto cinematografico, ma tant'è, i linguaggi sono diversi e diverso è anche il peso che si dà ai dettagli della trama.
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban resta comunque il  mio preferito tra i sette libri, per saper coniugare in maniera impeccabile il mistero con un'atmosfera che è ancora sbarazzina e gioviale. Il clima, dal quarto libro in poi, nonostante un infittirsi e un "insaporirsi" della trama, diventerà infatti sempre più cupo, sottolineando così il passaggio dall'infanzia all'età adulta dei nostri eroi. Ma questa è un'altra storia e per raccontarla c'è ancora tempo.

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban di J.K. Rowling, Salani, traduzione di Beatrice Masini

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

lunedì 22 ottobre 2018

Paura!

"Io non ho paura di nulla, sono il guerriero dragone" diceva un paio di anni fa la Lolla a un cuginetto dell'età di Ieie che le chiedeva stupito se temesse i vampiri, gli zombie o simili altre amenità.
E in effetti è vero, la Lolla, al contrario di Ieie, non ha mai avuto paura del buio (da piccola si nascondeva da sola in stanze oscure), dei mostri o di storie lugubri. Se dovessi dare il mio giudizio, è come se avesse sempre considerato queste cose per quelle che sono: storie, e come tali non vi ha dato più di tanta importanza, in maniera più o meno consapevole.
E mentre Ieie si faceva impressionare solo da una copertina di un libro (Il calice di fuoco, per esempio, o una vecchissima edizione dell'Isola del tesoro) al punto da costringermi a dirgli che li avevo buttati, altrimenti non avrebbe dormito più per settimane, la Lolla, quando il fratello pensò di raccontarle della bambola assassina di cui gli aveva parlato un compagno di scuola, continuò a dormire sonni tranquilli con tutte le sue bambole intorno, condividendo il racconto anche con le sue  (non so quanto grate) amichette. Ieie, ovviamente, pretese l'allontanamento immediato delle bambole dal corridoio delle camere da letto.
Insomma, la Lolla non è mai stata tipa suggestionabile. A sette mesi ha iniziato a dormire da sola in camera sua e da lì non è tornata indietro. Se è stanca saluta tutti e si corica in autonomia e sin da piccola, in salute o in malattia, preferisce la solitudine del suo letto al lettone, complice un'acuta, radicata, intensa passione per il sonno.

Proprio per questo sono rimasta colpita (per non dire shockata), quando la settimana scorsa, colpevole uno dei solito racconti che Ieie ricicla dai compagni di scuola, la sera la Lolla ha iniziato a piangere, dicendo di avere paura e la notte si è svegliata piangendo. E' stato come se qualcosa si fosse rotto, come se non avessi più davanti la mia bambina, ma una sconosciuta.
E' durato solo un giorno, poi non ne ha parlato più, il sonno è tornato placido e la Lolla ha ripreso ad andare da una stanza all'altra in tranquillità e in tranquillità a fermarsi a giocare in camera sua anche se non c'era nessuno nelle camere limitrofe.
La paura pare essersene andata, o forse essere stata dimenticata, ma adesso non riesco a non chiedermi cosa è cambiato in lei e da cosa, eventualmente, dovrei proteggerla, cosa che finora non ho ritenuto di dover fare. Mi chiedo, in particolare, cosa la abbia spaventata di quel racconto che ho ascoltato distratta, colpevole di averla ritenuta forte abbastanza per fregarsene come al solito.
E' strano come la crescita, che per Ieie ha significato dar meno peso a certe storie, per lei porti ad esiti opposti. O forse, è solo che la bambina ingenua, immersa in un mondo che col suo filtro rosa depurava tutte le informazioni esterne, comincia ad avere un approccio più consapevole alla realtà. Il rosa, insomma, talvolta deve lasciare il posto ad altri colori.

giovedì 18 ottobre 2018

Fratelli

"Mamma".
"Dimmi Lolla".
"Ma a che servono il padrino e la madrina?".
"Il padrino e la madrina aiutano i genitori nell'educazione spirituale dei figli".
"Ma papà mi ha detto che se i genitori muoiono, il padrino e la madrina prendono il posto dei genitori".
"Be', sì, diciamo che fanno anche questo".
"Allora, per esempio, se tu e papà morite vuol dire che io vado con alcuni zii e Ieie con gli altri?".
Segue aria perplessa e assai preoccupata.
"No Lolla, se io e papà moriamo, il giudice..."
"Chi è questo giudice?".
"Il giudice per i minori, è quello che decide in questi casi, dicevo, il giudice stabilirà con chi andrete a vivere. Ma in ogni caso non vi separerà. Una cosa è certa: voi due rimarrete insieme".
Aria rilassata.

Quando aspettavo la Lolla, Ieie doveva compiere i due anni e molti genitori di un maschio e una femmina, scoprendo che nel pancione c'era una bambina, mi dicevano scettici che maschi e femmine sono due mondi a parte e che, per quanto fratelli, quella creaturina in pancia e l'altra che mi sgambettava a fianco, avrebbero fatto vite a sé stanti e non si sarebbero considerati.
Il loro è un rapporto fatto più che altro di dispetti, mazzate, competizione, mazzate, litigi, mazzate, subitanee impennate di gelosia dell'uno non appena l'altro riceve un complimento/carezza/regalo, di, ma l'ho già detto?, mazzate.
Di rado giocano assieme, ma talvolta accade, eppure ultimamente ho assistito a scene inedite. Parole bisbigliate tra loro per non farsi sentire da noi genitori, risatine complici dalle quali siamo esclusi, Ieie sdraiato ai piedi del letto della sorella non per prendersi a botte, ma per chiacchierare.
E se lui, nonostante la gelosia con cui, già prima della nascita, ha accolto la sorella, ha comunque mostrato nei suoi confronti un atteggiamento protettivo, lo stesso non si può dire della Lolla, che è invece sempre pronta ad accusarlo di tutti i mali della terra, specialmente di quelli che la riguardano da vicino, e che guarda al fratellone con un aspro senso di inadeguatezza, come quella che si sente inferiore.
Eppure, quando l'altro giorno ci siamo scambiate le poche parole di cui sopra, ho capito che, mazzate a parte, tra loro è fiorito qualcosa destinato ad accrescersi e, speriamo, a resistere.
La fratellanza l'ho sognata per una vita, ma non l'ho avuta. Sarà il mio più grande rimpianto e non ci sarà mai modo di colmarlo. Loro, invece, questo regalo l'hanno ricevuto e, in un certo senso, attraverso la loro fratellanza vedo quello che sarebbe potuto essere anche per me. E che non è stato.
Non posso invidiare i miei figli, ma, ecco, li guardo da fuori, felice per loro, e penso che io quell'essere fratello e sorella non potrò mai capirlo fino in fondo.


venerdì 12 ottobre 2018

Se tu potessi vedermi ora

Quando nel 2013 David Rossi, capo della comunicazione del Monte Paschi, in pieno scandalo Mps volò dalla finestra del suo ufficio in quello che la magistratura definì suicidio, devo ammettere che pensai "Ecco, prima fanno la frittata e poi si suicidano".
Quest'inverno, però, seguendo la trasmissione delle Iene ho dovuto rivedere la mia posizione. Premetto che ognuno può avere delle Iene la sua opinione, so bene che a volte hanno sollevato polveroni per nulla, però quello che mi colpì dei servizi sulla morte di David Rossi furono il filmato della telecamera di sorveglianza che aveva ripreso parte della caduta e le foto del cadavere in sede autoptica. Sono bastati questi elementi a farmi pensare che in effetti quel volo tutto sembra, tranne che un suicidio.
Per questo lo scorso luglio ho assistito alla presentazione del libro Se tu potssi vedermi ora, di Carolina Orlandi, la figlia della moglie di Rossi, la stessa che ha combattuto e combatte per riaprire il caso. L'ho fatto per quel senso di vergogna spesso provocato dalle nostre istituzioni che dovrebbero (degnamente) rappresentarci (ma ahimè, pare sia cosa difficile), e che mi spinge ad approfondire certe tematiche.
La Orlandi ha spiegato che ha scritto il libro per ridare dignità a David, entrato nella memoria collettiva come quello del Mps che si è suicidato, per lasciare di lui un ricordo vero della persona che è stata. Ma il breve volume, un centinaio di pagine in tutto, è anche una ricostruzione dei giorni precedenti e successivi al tragico volo nel vicolo di Monte Pio a Siena.
Vi si ritrovano particolari già sviscerati dalla stampa e altri, più personali, legati agli effetti psicologici che la morte di Rossi ha avuto sulla sua famiglia. Se accettare che una persona ci lasci volontariamente è un processo difficile e distruttivo, prendere coscienza che le cose non sono andate così come ce le hanno raccontate è un percorso altrettanto impervio, soprattutto se ci si trova davanti un muro di gomma.
Della Orlandi, giovane e alla prima esperienza come scrittrice, ho apprezzato la capacità di scrivere e di narrare. Il libro si attiene ai fatti, personali e giudiziari, non ci sono congetture né ipotesi su quello che sia effettivamente successo, se non la certezza, prima latente, poi sempre più solida, che le indagini, frettolose, incomplete, zeppe di errori, non abbiano portato alla verità ma, come scrive l'autrice, a un suicidio per mancanza di prove.
Forse sotto questo profilo mi aspettavo qualcosa di più, non certo un j'accuse, ma quantomeno la presenza di particolari inediti rispetto a quanto già emerso finora. In ogni caso consiglio di leggerlo per ridare dignità a una persona e, a chi non conosce la vicenda, per averne contezza, perché forse solo una vergogna diffusa e ripartita può dare giustizia al nostro Paese.

Se tu potessi vedermi ora, Carolina Orlandi, Mondadori

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

martedì 2 ottobre 2018

Il mondo visto dalla Lolla

Il mondo visto dalla Lolla è una Paese delle Meraviglie dove il nonsense furoreggia e l'impossibile è la regola, dove le parole perdono peso e significato strabordando in qualcos'altro e ciò che è potrebbe essere ciò che non è. O viceversa.

Davanti al televisore
Ieie e la Lolla guardano la tv, c'è la pubblicità di un concerto.
Lei: "Ah, è Andrea Bocelli". Poi, con evidente stupore: "Ehi, ha aperto gli occhi!".
Lui: "Per forza è Claudio Baglioni".

Davanti al televisore #2
Lei: "C'è Fiorello. Fiorello Mannoio".

Esplorando il mare
"Mamma, lo sai che oggi con la maschera ho visto i piccoli del pescespada? Si chiamano aguglie".

Fashion victim
E così la Lolla prova il regalo della zia la quale, ben sapendo la triade che mi guida nell'acquisto di abbigliamento per bambini: lavabile in lavatrice-resistente alle cadute-sfruttabile per almeno due stagioni, e ritenendomi la nemesi di Anne Wintour e l'antitesi di Chiara Ferragni, le ha regalato un completo di tendenza. Una casacca a righine blu con le maniche a sbuffo, che lasciano le spalle scoperte, e un pantalone largo, da portare sopra la caviglia, con la vita alta, arricciata.
"Mamma si vedono le bretelle della canottiera. Perché le maniche sono così?".
"Adesso vanno di moda, aspetta, ecco ora non si vedono più".
"Ma questa è una gonna di sopra?".
"No Lolla, è una maglietta".
"I pantaloni sono un po' scollati".
"Non sono scollati, sono ampi, come si portano adesso".
"Come i tuoi rosa?".
"Sì".
Ci pensa su.
"Perché quelli normali non si portano più?".

Not like other girls
"Mamma ti piacerebbe avere una bacchetta come la signora Weasley, così potresti lavare i piatti con la magia?".
"Certo che mi piacerebbe, ma purtroppo non è possibile".
"Perché sei Babbana?".
"Anche tu lo sei".
"No io no. Io a undici anni vado a Hogwarts".

venerdì 28 settembre 2018

Una spola di filo blu

I Whitshank sono una famiglia americana come tante. Marito e moglie, Red ed Abby, quattro figli, Amanda, Jeannie, Denny e Stem, una grande casa di legno a Bouton Road nella città di Baltimora. Una casa che è un po' il cuore pulsante della famiglia, sfondo di tante vite, persona essa stessa, costruita con amore e passione da nonno Junior, capostipite dei Whitshank, della cui vita i nipoti conoscono quel poco che il padre ha saputo tramandare.
In Una spola di filo blu, la storia dei Whitshank parte un po' in sordina e ci viene narrata a partire dalla metà degli anni '90, quando Abby e Red sono alle prese col terzogenito Denny che una sera, dopo mesi di silenzio, chiama casa dicendo di essere gay per poi riattaccare e sparire di nuovo. Scopriamo subito che è sempre stato il figlio più problematico, quello che non si fa vivo per mesi e che taglia i ponti non appena ritiene che una domanda, o un commento dei familiari, sia di troppo.
Perché i Whitshank sono una normale famiglia americana, ma come ogni famiglia, a guardarla da vicino, ha le sue stranezze, i suoi segreti, la sua storia che non è mai un racconto lineare, ma assume sfumature diverse a seconda del punto di vista di chi l'ha vissuta e Anne Tyler ce la propone andando avanti e indietro nel tempo, mostrandoci quel che pare ci sia stato e quel che è accaduto, che non sempre coincidono, o forse non come ci saremmo immaginati.
Partendo dal 1994 il racconto arriva velocemente ai giorni nostri, soffermandosi sulla vecchiaia di Abby e Red, e svelando pian piano i perché del carattere difficile di Denny. Ma anche che essere famiglia non si può tradurre in un semplicistico "volemose bene", quanto piuttosto in un saper restare uniti nostante tutto.
Capitolo dopo capitolo ci ritroviamo negli anni '60, in quel pomeriggio giallo e verde in cui Abby, a Bouton Road, capì di amare Red, e scoprì dettagli, mai raccontati a nessuno, sull'incontro di Linnie Mae e Junior.
Di nuovo il nastro del tempo scorre all'indietro e, negli anni Trenta, apprendiamo tutta la verità sulla storia d'amore dei nonni Whitshank. E' così che, piano piano, la saga familiare acquisisce spessore e significato e i legami affettivi vengono inquadrati in una nuova prospettiva.
Ad Anne Tyler il merito di aver saputo costruire e descrivere personaggi complessi e a tutto tondo e di aver raccontato la storia di una famiglia come tante, arricchendola di un intreccio narrativo e di una caratterizzazione di vicende e protagonisti in grado di accendere a poco a poco l'attenzione del lettore.
Il finale ci riporterà ai giorni nostri, potrà piacere o meno (a me la sorte della bella casa di legno ha lasciato un po' di amaro in bocca), ma è proprio come la vita: mai scontata.
Ringrazio Paola di HomeMadeMamma per aver consigliato questa lettura un po' di tempo fa e, come sempre, questo post partecipa al suo Venerdì del libro.

Una spola di filo blu di Anne Tyler, Guanda, traduzione  di Laura Pignatti

lunedì 24 settembre 2018

Tipi da Instagram

Questa estate, mentre tornavo a casa, una giovane donna strigliava il titolare di un'attività di escursioni via mare del paesino perché non aveva una pagina Instagram adeguata. "Fidati di me che curo la comunicazione di una grande azienda - gli diceva - è utile ed è pure gratis".
La conversazione si inserisce in una riflessione che porto avanti da un po'. Premetto che non sono molto avvezza ai social, non ho mai avuto né desidero avere Facebook e anche Instagram, al quale sono iscritta da un anno, lo considero solo come uno strumento per guardare belle foto (e imparare a farne di altrettanto belle).
Mi piacciono quelle fatte in giro per il mondo o che sappiano cogliere dettagli e proporli in maniera originale, magari corredate da una didascalia arguta. Purtroppo noto come questo social, per la sua velocità, stia sostituendo altri mezzi di comunicazione digitali più strutturati.
Accanto alle foto, infatti, sempre più spesso vedo pubblicati lunghi post che mi innervosiscono, perché quando vado su Instagram lo faccio con l'idea di una capatina veloce, non con quella di mettermi a leggere un articolo vero e proprio (al quale magari dedicherei volentieri maggior tempo e su un supporto più comodo dello smartphone). E anche i post, forse proprio per l'immediatezza di Instagram, scontano spesso una scarsa cura nell'editing.
Non ho mai considerato i commenti, che invece sui blog leggo con curiosità, forse proprio per mancanza di tempo o perché alcuni Instagrammer ne hanno così tanti che preferisco desistere in partenza. Ultimamente, però, per comprendere come funzionano (non riesco mai a capire l'ordine con cui vengono inseriti, né chi risponde a chi), ho iniziato a leggere i commenti di qualche influencer/blogger più quotato per scoprire che, bene o male, i commentatori possono ricondursi ad alcune grandi categorie.
- L'hater. Da questo non ci si scappa, è un po' come l'Anton Ego di Ratatouille, che va a recensire i ristoranti solo per il gusto di parlarne male. E mo perché sfrutta i figli a scopo pubblicitario, e mo perché con i figli non ci sta e invece di lavorare come la gente per bene sta a farsi le foto; e mo perché s'è photoshoppato, e mo perché, ma non si vergogna? non s'è ritoccato!, insomma ce n'ha sempre una per insultare l'Instagrammer di turno. Caro hater, per carità, relax!
- La groupie, ovvero il contrario dell'hater. La (o il) groupie di turno è quella/o che si spertica in lodi imperiture verso il suo mito social e, all'occorrenza, diventa anche una guerriera Sailor. Se l'hater si fa vivo, infatti, ci penserà il/la groupie a punirlo in nome della luna a colpi di risposte piccate.
- Il patetico. Questa figura si palesa in caso di Instagrammer che fanno pubblicità. "Il tuo (mettere il nome di un qualsiasi prodotto) costa più di quello che spendo per mangiare per un mese" è la sua frase tipo. Ora, c'avrà pure ragione, ma basta. Caro patetico, anch'io penso che spendere 18 euro per un detergente per la casa (alias detersivo per lavare a terra) sia eccessivo, così come non chiedo diamanti a ogni ricorrenza. Però che un diamante è per sempre, ce lo ricordavano ogni volta che accendevamo la tv per vedere il Tg o leggevamo una rivista. Il profilo dell'influencer, invece, te lo vai a vedere di proposito.
- Il promoter di se stesso. E' quello che commenta per invitare il titolare del profilo e i suoi numerosi follower a seguirlo sul proprio profilo che, ha ancora pochi numeri, ma "ne vale la pena".
- Il cinico, ovvero quello al commento di cui sopra risponde, senza troppi fronzoli, "ma che ce frega".
E poi c'è la triade, tre figure che, a mio avviso, hanno un aspetto fondamentale in comune, ovvero usare il paravento dei social per dare sfogo a comportamenti che dubito avrebbero il coraggio di riproporre nella vita di tutti i giorni:
- Lo schietto. Il suo tratto distintivo è non aver peli sulla lingua, non insulta, non usa parolacce, ma quel che gli passa per la tesa lo deve dire. Convinto che un personaggio pubblico sia un po' come l'amico del cuore, gli fa domande personali, se non addirittura intime, e pubblica osservazioni che la gente normalmente terrebbe per sé. Che male c'è a chiedere, dice, sono sincero, aggiunge. Ora, caro schietto, sei sincero? Bene, allora la prossima volta che al colloquio scuola-famiglia la maestra di tuo figlio ti apparirà ingrassata, o che il tuo capo indosserà un completo che lo fa sembrare un deficiente, sii sincero e diglielo!
- Lo scurrile. Anche lui, come il precedente, non ha filtri. Parolacce, espressioni volgari, non sempre a scopo offensivo, ma perché quella è la sua cifra stilistica. Ecco, se esistesse un filtro Instagram per pulire la sua favella, sarebbe cosa assai gradita.
- Lo sgrammaticato. Con lui/lei non ci si dimentica solo l'uso dell'accento e della mutina, ma è proprio tutta la sintassi che va a farsi benedire, al punto che Champollion in persona dichiarerebbe la resa. Ora, caro sgrammaticato che mi dici 'scusa per gli errori andavo di fretta', la scrittura corretta è l'abito con cui presentiamo i nostri pensieri. Ti presenteresti in mutande a un aperitivo con gli amici? Nooo? E allora perché in mutande ci mandi i tuoi pensieri? 

martedì 18 settembre 2018

Milan l'è on gran Milan

Desideravo visitare Milano da tempo, più o meno da quando tutti tornavano dall'Expo dicendo che la città era cambiata, era più bella, più moderna più europea e..irriconoscibile.
Mancavo da Milano da dieci anni, dal matrimonio di una mia amica. Non che prima fossi un habitué, ma durante il periodo dell'università facevo di tanto in tanto qualche incursione per trovare la mia amica, anche se le maggiori conoscenze sulla capitale lombarda le ho raccolte quando, a nove anni, vi trascorsi due settimane ospite da una cugina di mia madre, perché la mia nonna materna era milanese, e un po' di sangue lumbard me lo porto nelle vene.
Così ho colto al volo l'opportunità della mostra di Harry Potter, per visitare anche la città dalla quale tutti tornavano estasiati.
Non posso che confermare questa versione: sono state 48 ore dense, ma ben spese, dalle quali sono ritornata con la conoscenza di una città migliorata sotto tantissimi punti di vista. Un centro storico ordinato, silenzioso, con pochissimo traffico. Niente auto in doppia fila, niente strombazzamenti, niente smog.
Una piazza Duomo gremita, ma una Brera, a quattro passi, tranquilla e chic, con quei cortili elegantissimi dove è bello sognare di vivere (perché visti, i prezzi, giusto sognare si può).
I cortili di Brera
Grazie alla velocità della metro siamo riusciti a vedere un bel po' dei posti che avevamo messo in lista, merito di treni veloci, non troppo affollati e frequenti e merito soprattutto di tariffe vantaggiose che invitano le persone a lasciare le auto a casa. Abbiamo scelto un biglietto valido per tutti i mezzi cittadini della durata di 24 ore, del costo di 4,50€ ad adulto (i bambini sotto i dieci anni non pagano) e in questo modo abbiamo girato come trottole in lungo e in largo, prediligendo soprattutto le zone nuove, quelle che più mi incuriosivano.
Ho adorato piazza Gae Aulenti con il suo muro di grattacieli che scintilla da lontano e i giochi d'acqua, le vetrine che rapiscono gli occhi e le strade intorno che rinascono grazie a questa riqualificazione.
Piazza Gae Aulenti
Qui, come a Citylife, un restyling moderno si sposa con gusto con i palazzi d'epoca tutto intorno, mescolando vecchio e nuovo, ma soprattutto creando un ambiente urbano estremamente piacevole, ricco di verde, di spazi fruibili a piedi, di luoghi per lo shopping e il tempo libero.
Il quartiere visto dalle torri di Citylife
Le scelte urbanistiche possono piacere o meno, so che su piazza Gae Aulenti i pareri non sono unanimi, ma quando si gira per i quartieri (sono molte le aree dove si lavora a costruire e ristrutturare), quel che colpisce è che c'è un'idea di città che viene portata avanti, ci sono progetti, c'è una visione moderna.
Il grattacielo di piazza Gae Aulenti visto da corso Garibaldi
Perché è questo che si nota a Milano: la città si sta proiettando nel futuro senza per questo tradire le sue radici, ed è, soprattutto, vivibile.
Sembra il vicolo d'Oro a Praga e invece è il vicolo dei lavandai sul Naviglio grande
Ci son quartieri, come Isola che non ho visto ma di cui mi hanno parlato, che erano degradati e oggi sono un fiore all'occhiello. C'è via Paolo Sarpi, nella Chinatown, al centro di tante polemiche negli scorsi anni, che rigurgita sì di negozi orientali, ma che si è trasformata in una via pedonale, tranquilla, gradevole, al centro di un quartiere in piena ristrutturazione.
C'è una città dove è bello passeggiare con i bambini, dove ci si sposta con facilità, pulita, ordinata e dove la gente è...gentile. Mi è capitato più di una volta, in questi due giorni, che abitanti di Milano, vedendoci alle prese con strade e cartine, ci chiedessero se avevamo bisogno di aiuto. Non mi succedeva dai tempi di New York di incontrare tanta cortesia non richiesta. Non è scontato, non è sempre stato così.
Ho vissuto dieci anni a Roma e posso testimoniare come la vita nelle grandi città sia capace di abbrutire anche le persone più gentili. Persino io, a furia di vedere il grugno scontroso della tabaccaia sotto casa a Roma ogni volta che compravo un biglietto dei mezzi, ero diventata ostile, collerica, refrattaria a qualsiasi contatto umano (soprattutto se il contatto era, quotidianamente, dover stare spiaccicata tra centinaia di corpi nella metro).
A Milano la gente ti sorride, il che significa che è ben disposta verso il prossimo e che, nonostante la fatica di ogni giorno, tutto sommato si vive bene.
Ora non dirò che è tutto rose e fiori. La mia è stata una visita parziale, certamente ci sono quartieri degradati, ma è bello che qualcosa si muova.
Certo, a volte il progresso può spiazzare. Come quando volevamo visitare il Duomo, ma non si poteva senza biglietto. E va bene pagare per entrare in chiesa, è così in molte città all'estero, i costi di manutenzione sono alti, sono disponibile a fare la mia parte. Solo, non poter entrare in chiesa perché la biglietteria chiude un'ora prima della chiesa stessa, be', questo mi ha lasciata perplessa. Essere costretta a non entrare in una chiesa aperta ancora per un'ora, per una questione di biglietti, questa è una cosa alla quale difficilmente potrò abituarmi.
In ogni caso, mi sento di consigliare vivamente una visita a Milano con i bambini, sia per la facilità negli spostamenti, sia per le tante attrazioni adatte ai più piccoli. Si può scegliere una passeggiata tranquilla tra le vie eleganti, lungo i navigli o in un parco, per esempio a parco Sempione, al quale si accede dopo aver attraversato i cortili del castello Sforzesco e si sa che i castelli esercitano sempre il loro fascino sui più piccoli.
Il Naviglio grande
Se in casa c'è un piccolo fanatico di calcio, si può decidere di portarlo con la metro lilla (quella senza guidatore, dove ti puoi sedere proprio in testa al treno e vedere le gallerie che ti si aprono davanti) fin sotto lo stadio Meazza.
Corso Como
Oppure si può consultare il cartellone degli spettacoli e delle mostre, sicuramente ci sarà qualcosa per il pubblico sotto il metro e mezzo. Il Muba (Museo dei bambini) ha un'offerta varia e interessante e ad ottobre al teatro Nazionale, ad esempio, tornerà in scena il musical su Mary Poppins.
E poi, siccome anche noi grandi abbiamo diritto a un minimo di cultura, ci sono musei, come la Pinacoteca di Brera, dove l'ingresso è gratuito sotto i 18 anni.
L'unica accortezza è dotarsi di bambini con un minimo di tolleranza. Almeno su quello, non ci sono offerte di alcun tipo.

domenica 16 settembre 2018

Si ricomincia

In questa vigilia agrodolce che precede il riprendere della scuola, sono divisa tra la necessità di mettere un punto a ben tre mesi di vacanza (e riprendermi un po' del mio tempo) e la malinconia all'idea di ricominciare col tran tran frenetico. Mi sembra ieri che mi affannavo tra compiti e attività sportive e, lo so che invece di tempo ne è passato e di cose ne abbiamo fatte, ma la prospettiva di rituffarmi nel vortice non mi alletta per nulla.
E poi c'è lui, che si appresta alla classe quinta, traguardo e rampa di lancio.
Avrei voluto scrivere fior fior di riflessioni su questo momento così simbolico, ma la verità è che ho un'unica, banale considerazione, che è poi comune a molte mamme: il tempo è volato via.
E' stantio dire che mi sembra ieri quando Ieie, piccolo e tremante, aspettava con i compagni davanti alla scuola la cerimonia di accoglienza dei bambini di prima. Era talmente teso e pareva minuscolo sotto quello zaino vuoto. A parte il primo anno, che forse per la fatica iniziale mi è sembrato più lungo, per il resto non so nemmeno io come abbiamo fatto a ritrovarci già qui. Erano i piccoli, da domani saranno tra i grandi della scuola.
Chissà cosa ricorderà Ieie della "primaria". Io ho memorie nitide e precise delle mie elementari. Ricordo mia nonna che mi chiedeva conto degli esami di quinta, la mattina, a casa sua, appena uscita da scuola; ricordo i pianti in braccio a mia madre sulla sdraio beige del balcone, quella che non esiste più, al pensiero che non avrei più rivisto i compagni di quegli, nella mia mente di bambina, interminabili cinque anni. Ricordo le amiche che sembravano dover essere per sempre e che invece non ho più rivisto.
Chissà cosa si porterà dietro mio figlio.
Io, per quest'anno, ho un solo piccolo desiderio: che il tempo rallenti un po', perché ho paura che, a quella campanella di inizio lezioni, seguirà rapida quella che ne segnerà la fine.

venerdì 14 settembre 2018

Leggiamolo insieme-Harry Potter e la camera dei segreti: libro+film+mostra

Harry Potter e la camera dei segreti rappresenta un punto di svolta nel ciclo del maghetto di Hogwarts. La capacità narrativa della Rowling si affina e diventa più sofisticata rispetto al primo volume, la storia assume i contorni di una saga grazie all'inserimento di elementi che torneranno utilissimi per comprendere gli ultimi libri e si innesca quel meccanismo a orologeria perfetto che è la vicenda del maghetto più famoso al mondo.
Dal mio punto di vista è di gran lunga superiore a Harry Potter e la pietra filosofale perché, pur conservando ancora quella spensierata fanciullezza che dal quarto volume in poi andrà stemperandosi in toni più lugubri, già mostra la maestria della Rowling nel creare misteri che lasciano col fiato sospeso, dal finale incredibile in tutti i sensi. Secondo come bellezza al prigioniero di Azkaban, che resta il mio preferito, ha riscosso grande successo nella nostra lettura collettiva, resa più agile dalle vacanze estive.
Questa volta il nostro eroe, al suo secondo anno a Hogwarts, sempre affiancato dai fidi Ron e Hermione, dovrà vedersela con una stanza leggendaria che forse esiste o forse no e con un mostro che pietrifica gli studenti. Tra voci disincarnate, diari segreti e pozioni polisucco, i tre amici giungeranno alla soluzione del mistero, che lascerà letteralmente di sasso.
La storia si arricchirà di nuovi personaggi, alcuni dei quali diventeranno nel tempo vecchie, care conoscenze, assumerà toni spassosi in presenza del professor Gilderoy Allock che Ieie e la Lolla hanno adorato, stupirà e no, non farà paura (cosa che molte amiche mamme mi chiedono quando i bambini raccontano di Harry Potter), nemmeno quando i mostri, dalla pagina del libro, si materializzano nell'omonimo film.
Secondo me i miei figli mi stanno ad ascoltare più per il piacere di vedere, a libro finito, il film, che per la lettura in sé, ma va bene così. Sono contenta di aver fatto scoprire loro questo mondo, sono contenta di scoprirlo attraverso i loro occhi perché rileggere i libri e rivedere i film con loro, mi restituisce tutto lo stupore e il fascino che i bambini provano approcciandosi alla saga di Harry Potter.
La Lolla si sveglia la mattina chiedendomi chiarimenti su qualche passaggio dello storia, Ieie ne memorizza le battute, insomma è HarryPottermania e a coronare il tutto, stavolta ho pensato di regalare loro un pezzetto di magia in più.
Così, per festeggiare la fine del secondo capitolo della saga, siamo stati alla Harry Potter Exhibition, la mostra che si è tenuta a Milano nello stabile della Fabbrica del vapore fino al 9 settembre scorso. L'attesa è stata spasmodica e febbrile per tutta l'estate. Poi, finalmente, l'8 settembre abbiamo visitato l'esposizione che, altro non è, che la mise en place del materiale usato per i film: costumi, oggetti di scena, allestimenti.
Si va dagli arredi della torre del Grifondoro alle scope per il Quidditch, dalla tunica di Silente alle mandragole e chi più ne ha più ne metta. Ci siamo divertiti molto a girare tra il materiale cercando di riconoscere ogni singolo pezzo e, anche quando si trattava di elementi o personaggi dei libri successivi che ancora non conoscevano, è stato bello curiosare con loro sui prossimi volumi, cercando, of course, di non svelare troppo.
Rinvasando mandragole
Dopo la mostra, a mente fredda, posso dire che forse, visto il contenuto dell'esposizione, il prezzo del biglietto potrebbe essere un tantino più contenuto (abbiamo speso mooolto meno per la Pinacoteca di Brera che è pur sempre la Pinacoteca di Brera), però i bambini sono tornati entusiasti, per cui alla fine, vista con i loro occhi, ne è valsa la pena.
Provando a segnare con la Pluffa
Harry Potter e la camera dei segreti di J.K. Rowling, Salani, traduzione di Serena Daniele

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

martedì 11 settembre 2018

Sulle smanie dell'inizio scolastico

Ritorni dalle vacanze e, senza nemmeno accorgertene, i soldi ti sgusciano fuori dal portafogli. Cene fuori? cinema? shopping selvaggio? Neanche a parlarne, la prima grossa spesa della stagione è il materiale scolastico. Ieri ho iniziato, senza peraltro concluderlo, il tour de force tra quadernoni e penne ritrovandomi a domandarmi come abbia potuto sborsare tutti quei soldi per un po' di cancelleria.
E no, io non sono una che vuole tutto griffato, tutt'altro, ieri, al centro commerciale, ero quella che ravanava nel cesto dei pacchi di quadernoni in offerta, alla ricerca dei più convenienti e che, quando si è arresa all'evidenza della fine dei quadernoni a righe di terza, anziché cedere alla proposta della Lolla che sventolava quelli di Elsa da € 1,50 l'uno, ha gridato "Giammai, piuttosto li faccio io con la fotocopiatrice e la spillatrice" (ok, non l'ho urlato ma l'ho seriamente pensato).
Così, sotto un sole ancora terribilmente caldo, siamo andate di negozio in negozio per tornare a casa con 45 tra quadernoni a righe e a quadretti (tutti in offerta). Esagerata? Eppure lo scorso anno ne comprai altrettanti e bastarono sì e no fino a Pasqua. Tempo una settimana e già la metà saranno foderati e destinati a una materia. Prendete un quadernone per storia, scienze e geografia a testa, tre per italiano, due per matematica, un altro ciascuno per religione, inglese, musica e arte, moltiplicate per due (figli) e i conti tornano. Attaccate schede su schede su ogni pagina e i quadernoni finiranno prima che riusciate a memorizzare l'associazione copertina/materia.
Non voglio rispolverare il solito "ai miei tempi", ma è un fatto che i quaderni (piccoli, compatti) che ho usato in cinque anni di elementari, sono all'incirca quanti quelli che Ieie ha fatto fuori nel solo primo anno di primaria.
E va bene che la didattica è cambiata e tutta la solita solfa, ma io, come dice lo spot, guardo al risultato, e non mi sembra che Ieie e la Lolla ne sappiano di più di me alla loro età. E no, non è perché io fossi più brava di loro (tutti i dieci che portano a casa io li vedevo col cannocchiale), è che semplicemente noi, si lavorava di più. Ho ancora l'incubo dei pomeriggi trascorsi a fare l'analisi grammaticale di interi brani del libro di testo, mi pareva che l'orologio si cristallizzasse mentre sottolineavo ogni parola con un colore diverso (blu per il verbo, rosso il nome, giallo l'aggettivo) e le riscrivevo sul quaderno con la relativa analisi.
Però io, a tutt'oggi, potrei fare l'analisi grammaticale solfeggiando su un piede solo, e non so se i miei figli, alla fine della primaria, ne saranno altrettanto capaci.
Così, dicevo, le prime banconote sono volate via solo per i quadernoni, e speriamo che siano soldi ben spesi.
Su qualche altro articolo richiesto dalla scuola, io, che sin da bambina ho avuto il complesso dell'autorità e non ho mai messo in discussione le richieste degli insegnanti, ho glissato con nonchalance. Mi riferisco alla etichette con nome e cognome con cui, dallo scorso anno, dovrebbero essere corredati tutti gli articoli in possesso degli studenti: dai quaderni ai libri, fino alle forbici e a tutti i pastelli.
Lo so che ci sono appositi siti Internet che te li stampano e te li inviano a casa (ma mica te li appiccicano, eh?), ma io lo scorso anno mi sono rifiutata di sottopormi a questa spesa.
I motivi, per parte mia, sono due, entrambi validissimi.
Il primo è che, con o senza nome, i bambini si perdono comunque il materiale scolastico. Le gomme per cancellare, per dire, le ho sempre vergate con il nome dei miei figli su ogni faccia. Questo, tuttavia, non ha impedito che il numero di gomme smarrite e mai più ritrovate sia comunque giunto a una cifra incalcolabile (e infatti mica lo so quante ne abbiamo cambiate negli anni). Sicché etichettare tutto, cui prodest?
Il secondo motivo è  che, se la scuola mi chiede di appiccicare etichette su tutto, anche dal primo all'ultimo dei 24 pastelli, evidentemente suppone che io non abbia nulla da fare e mi stia gentilmente suggerendo un modo per impiegare il tempo libero. Ma io, di tempo, ne ho poco, e quel che mi avanza, so già come impiegarlo di mio (per non parlar dei soldi), sicché siccome lo scorso anno nessuno ha eccepito sulla mancata etichettatura, qualora quest'anno la richiesta si dovesse ripetere, ho già pronta la risposta.
Comunque, io speriamo che me la cavo, e pure i miei figli, va.
I quadernoni oggi e i quaderni di un tempo

mercoledì 5 settembre 2018

Ciao, mare

Hai mai visto, veramente, il mare? Hai nuotato tra le sue onde, tagliandolo a vigorose bracciate, sentito la sua freschezza scivolarti addosso? Hai permesso al tuo corpo di divenire parte dell'acqua, mentre polmoni, occhi, naso perdevano la loro consistenza diventando liquidi essi stessi?
Hai lasciato la salsedine seccarsi sulla pelle, imperlarti le sopracciglia, infarinarti il viso?
Hai mai vissuto il mare? Hai respirato il suo profumo? Lo hai solcato a tutte le ore imparando come a ognuna corrisponda una sfumatura diversa di luce?
Sin da bambina ho sempre amato il mare. Il mio mare.

L'ho amato pazzamente quando saltavo i cavalloni sulla prua di una barca.
L'ho amato osservandolo attraverso le lenti di maschere che mi hanno insegnato a riconoscere fondali e colori di ogni singola insenatura.

L'ho amato quando ne esploravo le viscere scendendo sempre più giù.
L'ho amato anche quando, profondo e arcigno, non permetteva di vederne la fine mostrando solo l'angosciante incrocio dei raggi del sole.
Poi sono cresciuta e, come ogni amore che si rispetti, la maturità ha aggiunto a quel sentimento folle e sconsiderato, una scintilla di lucidità.
Ho cominciato a temerlo e a rispettarlo, dopo averne conosciuto l'imprevedibilità.
Ma ho continuato ad amarlo.
Lo amo quando sonnecchia placido e bellissimo sotto il sole e la sua chioma diventa d'oro; lo amo quando si increspa leggermente infastidito per un refolo troppo audace; lo amo quando, arrabbiato, ti scuote e ti strattona.

Lo amo vestito con i colori verdi e azzurri della spensieratezza, o col blu scuro delle grandi occasioni; lo amo al tramonto, quando stanco e incapace di opporsi, permette al sole di tingerlo di sfumature fosforescenti rosa e violette.
Lo amo persino quando si fa baciare dal sole, diluendosi in un rosso appassionato.

Come ogni anno le vacanze al paesino sono agli sgoccioli. Come ogni anno da tanti a questa parte, arrivano le giornate intrise di nostalgia e il cuore è un puntaspilli dove ogni ricordo lascia una piccola puntura. A volte vorrei saltarlo a pie' pari, questo momento che si trascina con malinconia, ma fa parte della vita, della fine di qualsiasi cosa bella. E il fatto che le vacanze al paesino, dopo tanti anni, sappiano ancora farsi rimpiangere è dopotutto un fatto positivo.
Non sarà solo il mare, a mancarmi, ma tutto ciò che questo spazio sconfinato racchiude: la libertà, la possibilità di vivere all'aria aperta, la vicinanza con vecchi amici e l'opportunità di trascorrere con loro tanto tempo assieme.
E poi, quest'anno, anche Ieie si approssima alla fine delle vacanze con un nuovo stato d'animo, quello di chi ha compreso il segreto, ineluttabilmente dolce-amaro, del tempo che se ne va.
Ha raccontato alla nonna di aver salutato un amichetto conosciuto in spiaggia, perché era l'ultima mattina in cui si sarebbero visti.
"Va be' - l'ha consolato mia madre - vi rivedrete l'anno prossimo".
"Sì ma non è la stessa cosa, perché l'anno prossimo sarò più grande".


venerdì 31 agosto 2018

Saigon e così sia

Tra il 1967 e il 1968 Oriana Fallaci visitò il Vietnam del Sud come inviata di guerra, usufruendo di documenti, divise e mezzi dell'esercito Usa. Di quell'esperienza è frutto Niente e così sia, il libro in cui raccontò il massacro del conflitto in Indocina.
Un anno dopo era di nuovo lì, sul fronte opposto, per conoscere quel popolo che aveva ammirato e desiderato incontrare, gli abitanti del Vietnam del Nord, visti fino ad allora solo cadaveri.
Da quel viaggio prende vita Saigon e così sia, libro pubblicato postumo, che la stessa Oriana aveva voluto e curato e che, a differenza del precedente, non è una diario della spedizione, ma una raccolta di articoli pubblicati all'epoca sull'Europeo che raccontano la visita della Fallaci ad Hanoi a seguito di una delegazione di donne italiane, il successivo ingresso nella Cambogia, durante la fase di allargamento del conflitto in Indocina, i negoziati statunitensi prima del disimpegno dal Vietnam e la caduta finale di Saigon.
Uno specchio accurato e documentato delle ultime fasi della guerra in Vietnam che qui, attraverso il resoconto delle trattative di Kissinger e la ricostruzione della vita di alcuni dei suoi protagonisti, da Ho Chi Min al presidente Thieu, sembra mostrarsi appieno nel suo significato. Si capisce così come una giusta battaglia per l'indipendenza abbia assunto infine l'aspetto di un regime oppressivo.
Se infatti nel 1968 per la gran parte degli occidentali le origini del conflitto erano note (o almeno avrebbero dovuto esserlo), per noi che l'abbiamo conosciuto attraverso i film e le scarne citazioni sui libri di storia, rimane solo una guerra imperialista, inutile e sanguinosa, nonché la prima sconfitta per la potenza americana. Vale la pena quindi affrontare questa lettura, per comprendere finalmente questa guerra (e magari per evitare altri errori simili).
Molto bella la prima parte del libro, quella che racconta appunto del viaggio ad Hanoi e nelle province limitrofe. La Fallaci, che aveva ammirato la tenacia dei nordvietnamiti, ne rimane subito delusa:

E' assai più facile amarli da lontano o dall'altra parte della barricata. Forse li hai amati troppo, li hai pianti troppo, li hai idealizzati troppo. Visti da vicino, non potevano che ferirti.

Non è solo la guerra, spiega la Fallaci, la guerra c'era anche Saigon, eppure Saigon era una città che brulicava di vita, la gente riusciva ancora a sorridere. Ad Hanoi tutto è tetro, la città le facce della gente, e si vive in una sorta di rigore monacale che non impedisce solo la libertà di parola o di pensiero, ma la vita stessa.

Hanoi ricorda un cupo convento dove ciascuno è impegnato a mortificarsi [...]. Non c'è un locale di divertimento, solo cinematografi sporchi che proiettano filmucci di propaganda o di guerra, non sorprendi mai due che si baciano [...] e le donne [...] non fanno mai nulla per sembrare graziose.

Verrebbe voglia di urlare: datti un colpo di pettine, perbacco, datti un po' di rossetto, non andrai mica all'inferno se lo fai!

Secondo la Fallaci la spiegazione è nell'esempio dato dall'austero Ho Chi Min, di cui, nella parte finale del libro, la giornalista traccia un ritratto magistrale (leggetelo se, come per me, Ho Chi Min è solo il nome polveroso di un vecchio leader marxista)
Come sempre, quello che ho apprezzato è l'accuratezza con cui la Fallaci affronta i suoi testi. Niente è lasciato al caso e ogni parola è frutto di accorte documentazioni e di testimonianze dirette. Oriana non si fa guidare dal pregiudizio o dal sentito dire, vuole essere in prima linea, sfatare (o confermare) miti e leggende ed è capace di ammettere l'errore, senza farsi accecare dall'ideologia o dal proprio ego.
Da ammirare il coraggio mostrato dalla giornalista nel viaggio ad Hanoi, la faccia tosta nel riproporre domande che le erano state espressamente vietate, nel fotografare quel che era coperto da segreto, nel nascondere i rullini fotografici proibiti.
Alla censura e ai comunicati stile MinCulPop di Hanoi (vedere l'intervista al generale Giap), la Fallaci oppone il coraggio della verità, abituata com'era a quella "libertà di movimento che gli americani ti danno anche se parli male di loro".
Amarissimo il giudizio finale della giornalista che, pur comprendendo le motivazioni della guerra, non trova giustificazioni, né valori difendibili da nessun lato della barricata.

Sì, il male è equamente diviso in quella guerra: gli elementari diritti delle creature sono infranti sia a Saigon che ad Hanoi, da nessuna parte della barricata v'è la risposta alle nostre speranze. E con tale conclusione, inevitabile, amara, chiudo la mia testimonianza sul Nord Vietnam. Oltre che una testimonianza, una conferma che non basta parlar di giustizia per essere giusti, di civiltà per essere civili, di umanesimo per essere umani.

E mentre la guerra finisce e la cortina del silenzio cala su Saigon chiudendo a chiave un popolo costretto a tacere e soffrire, le parole della Fallaci andrebbero impresse su tutti i libri di storia. Chissà che possa no aiutarci a essere uomini, e donne, migliori.

Saigon e così sia di Oriana Fallaci, Best Bur

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

giovedì 30 agosto 2018

14 agosto

E' proprio quando, nel giorno della vigilia di Ferragosto, vorresti sfogare il tuo nervosismo dovuto alla folla, al caos, al traffico, alla maleducazione dei turisti, che la vita ti riporta con i piedi per terra, a guardare tutto ciò da lontano, come con un cannocchiale, e a considerare quel che è veramente importante.
Ci pensa una telefonata, che a quell'ora qualcosa deve essere successo, ma a quelle parole, impossibili, incredibili, che però non possono essere dette a casaccio, non ci avresti mai pensato.
E ti metti in macchina, un peso sulla bocca dello stomaco e il desiderio che si tratti di un errore. Adesso ti richiamano e ti dicono che si sono sbagliati, oppure arrivi lì e constati con i tuoi occhi che c'è stato un malinteso.
Lei tornerà ad accoglierti col suo sorriso.
Senti ancora la sua voce.
Ed entri in quella casa dove sei entrata centinaia di volte da quand'eri bambina, sempre uguale, immutata. Di una vecchiezza scomoda e fuori moda. Ma quel che per qualcuno è da buttare, per qualcun altro è una reggia.
Entri e ti tornano in mente tutte le volte che sei passata da quella porta a vetri. Soprattutto le ultime, che da quando vivi al paesello son quattro passi da casa tua.
Quei quattro passi che non farai più.
E pensi.
Perché ogni oggetto è un ricordo.
Pensi all'ultima settimana prima di andare al mare. "Ci vediamo prima che partiate?". Sì, avevi risposto, e in effetti vi eravate riviste, ma quasi per caso. L'ultima volta che sei stata lì, non sei nemmeno entrata. C'erano i bambini.
I bambini che lei amava tanto ed accoglieva con "Nah, chi viene? Chi viene?" appena li riconosceva dai vetri della porta.
Senti ancora la sua voce.
"Beh, la Pizzupia" diceva alla Lolla, che di quel nome se ne faceva un vanto. "Belli, belli della zia" ripeteva, prima di essere coinvolta in una partita di assopigliatutto o in una passeggiata fino al pollaio.
Ed ecco, arrivano i rimpianti per tutte le visite non fatte o fatte di fretta. E il conforto, meno male, di quelle più lunghe. Delle parole scambiate, del tempo trascorso assieme. Dell'esserci stata negli ultimi mesi più duri, quelli del lutto e della malattia. Dell'aver attraversato insieme il reparto di radioterapia, dove una dottoressa gentile e gagliarda che l'aveva presa in cura, era rimasta abbagliata dalla sua tempra e dalla sua mente e aveva decretato che la malattia avrebbe avuto un decorso lento e, data l'età, se ne sarebbe andata per qualche altro motivo.
Chi lo sa, forse aveva ragione.
Ma nessuno pensava sarebbe successo così presto. Proprio lei che sembrava inossidabile. Che c'era sempre stata e forse avrebbe continuato a esistere dopo tutti noi. Che, nata e vissuta nella casa di suo nonno, padre di dieci figli, era la memoria storica di una famiglia di decine di nipoti. E tutto ricordava di quel passato.
Resta il rimpianto di quel che avrei voluto ancora chiederle.
Delle ricette che non ho fatto in tempo a farmi spiegare.
Delle cose che avevamo rimandato a dopo l'estate, impreparate, entrambe, al fatto che un dopo non ci sarebbe stato.
Resta una pianta di cappero fatta preparare da lei per me, per il mio giardino. Da piantare in autunno.
Gli alberi di agrumi del suo aranceto, tornati a produrre dopo due anni di inattività, di cui aspettavamo il raccolto natalizio.
Resta un dolore alla bocca dello stomaco che torna a colpire ogni volta che la vita va in stand by e ti rendi conto che è successo, ed è tutto vero.

Te ne sei andata come hai sempre vissuto, in una vigilia di Ferragosto, con il paesello semideserto, per non destare troppo rumore.
Te ne sei andata come hai voluto. Nella tua casa, tra le tue cose, autosufficiente, autonoma.
Te ne sei andata, ma ancora non mi sembra vero.
Ogni volta che chiudo gli occhi, a me sembra di sentire ancora la tua voce.
"Nah, chi viene, chi viene?".

C'è un prima e c'è un dopo. E incredibilmente, non coincidono più.