martedì 20 dicembre 2016

Natale

"Mamma Babbo Natale deve guardare tutto il giorno la televisione!".
"Oh poveretto, e perché mai Lolla?".
"Perché se no come fa a sapere quello che scelgono i bambini! Lui guarda la televisione così conosce quello che scelgono".

La sera. Zampognari, nenie natalizie, un carretto tirato da un cavallo e fuochi d'artificio a illuminare la notte pungente. Sotto un albero di Natale scintillante fatto di bottiglie di vetro, Ieie e la Lolla sono a colloquio con Babbo Natale e un suo aiutante elfo dalle grandi orecchie. Bisbigliano a quei buffi esseri, sgranano gli occhi, sorridono.
Poco dopo due nuvolette corrono verso di me facendo vibrare l'aria di risate tintinnanti e sventolando un sacchettino.
"Mamma ci ha dato le caramelle anche se sapeva che non eravamo stati buoni".
"Ma come faceva a sapere che non siamo stati bravi?".
Che bello il Natale dei bambini.

mercoledì 14 dicembre 2016

Il mondo visto dai bambini

Qualche giorno fa, a casa dei nonni.
"Nonna ma cosa stanno dicendo al telegiornale?".
"Stanno dicendo che un'infermiera ha ucciso il marito".
"E perché?".
"Perché non lo voleva più e allora ha deciso di ucciderlo".
"Che strano".
"Perché che strano, Ieie?".
"Perché di solito sono i mariti che uccidono le mogli, non il contrario".

martedì 13 dicembre 2016

Figlio

Figlio che sei arrivato per primo in una mattina fredda e tersa di un dicembre di qualche anno fa.
Figlio, che mi hai insegnato sin da subito che l'essere genitori comporta preoccupazioni.
Figlio, che sei curioso e fai mille domande alle quali mi piace rispondere.
Figlio, che ragioni come me, e non sono i tuoi dubbi a stupirmi, quanto il fatto che anche io li avrei formulati nello stesso modo.
Figlio, che anche se non chiedi affetto lo desideri.
Figlio, che hai antenne, radar e vibrisse e capti il non detto e sei ipersensibile.
Figlio, che hai sempre la rabbia e lo scontento a smuoverti ed agitarti.
Figlio, che ti lamenti anche quando ottieni ciò che chiedi.
Figlio, che scarichi sugli altri, su me, le tue frustrazioni dalle origini ignote.
Figlio, che fai di tutto pur di non ascoltarmi.
Figlio, che finisco spesso per sgridare, con dispiacere.
Figlio, che tu non ti ricordi, ma c'è stato un tempo in cui eravamo solo io e te, e riempivo i tuoi pomeriggi di giochi e di risate.
Figlio, che nessuno, oltre me, sa di quando gattonando mi cercavi nascosta dietro al divano per ridere come un matto una volta ritrovata.
Figlio, che oggi sono otto anni di te, e non so dire se sono troppi o pochi.
Figlio, che misuri il tempo con i tuoi vestiti sempre più grandi.
Figlio, che mi chiedo che uomo sarai e quanto di quel che sarai dipenderà da me.
Figlio, che temo il giorno in cui non potrò più chiamarti il mio bambino, ma solo figlio mio.

venerdì 9 dicembre 2016

Storia del nuovo cognome

Lila ed Elena sono tornate e con loro la vita del rione, gli amici dell'infanzia, le gioie semplici di chi è abituato a vivere con poco, se non addirittura nella miseria.
Storia del nuovo cognome, secondo capitolo della quadrilogia dell'Amica geniale, si apre poco dopo la fine del primo volume. Lila si è appena sposata, ma ha scoperto che il marito non è l'uomo che credeva e che sull'amore ha ancora molto da imparare.
Elena, come spesso le succede, guarda la propria vita attraverso la cartina di tornasole delle esperienze di Lila. Nulla ha significato se non lo ha anche per la sua amica, nulla è più bello di quello che fa Lila. E' così che all'inizio della storia Elena trascura la scuola e ipotizza di sposarsi al più presto col suo fidanzatino, Antonio, sebbene non riesca a dimenticare il suo amore d'infanzia, Nino Sarratore. Sarà proprio Lila, imprigionata in un matrimonio che ha il solo merito di averla sottratta alla miseria, a spronarla allo studio. 
L'amicizia tra le due ragazze continua come un yo-yo, alternando momenti di grande vicinanza ad allontanamenti bruschi, fino all'estate trascorsa ad Ischia, in compagnia di Nino, che segnerà in maniera ineluttabile il loro futuro.
Per Lila la vacanza sarà il momento di dare una decisa sterzata al suo matrimonio, per Elena avrà l'effetto di spingerla in uno studio assiduo e insensato, via di fuga che la porterà lontana dal rione e soprattutto da Lila.
Volano in un attimo gli anni dell'università trascorsi in una Pisa lontana. Da qui il racconto di Elena, che sembra aver rotto i ponti con la sua amica, si fa veloce e rarefatto perché, come ammette lei stessa, senza Lila "il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valigie sul nastro di un aeroporto".
Storia del nuovo cognome non tradisce le aspettative di chi aveva amato l'Amica geniale. Lila è ancora la ragazza ribelle che tutto spariglia per il solo gusto di provocare chi le sta intorno, che prende dalla vita tutto quello che può. Eppure è proprio lei, più di Elena, a suscitare in questo capitolo la simpatia del lettore. Seppur assennata e gentile, Elena sembra sempre trascinata dagli eventi e quanto più Lila combatte, a costo di enormi sofferenze e non senza colpi bassi, per scegliere della propria esistenza, tanto più Elena sembra accontentarsi di ciò che trova lungo il cammino, come se non avesse desideri e aspirazioni personali.
Arriva inaspettato il finale, che capovolge la sorte delle due amiche e ci lascia con un cliffhanger pieno di interrogativi. Non resta che tuffarsi nel terzo volume per cercare le risposte.

Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante, edizioni e/o

mercoledì 7 dicembre 2016

Quando un papà va al colloquio scuola-famiglia

Il primo colloquio scuola-famiglia di quest'anno scolastico, e il primo in assoluto della Lolla, se n'è andato senza che potessi prendervi parte. Mai e poi mai avrei voluto mandarci mio marito il quale, è risaputo, è laconico al limite dell'assenza. Al punto che se telefona a un amico per fargli gli auguri per essere diventato papà, non sa nemmeno dirti come si chiama il bambino/a ("Dovevo solo fargli gli auguri, non sono come te che non la smetto più di chiacchierare", si va buò, una via di mezzo no?). Le circostanze però, hanno giocato a mio sfavore e, debilitata da una febbre come non mi accadeva da tempo, ho dovuto accettare che al colloquio ci andasse proprio lui, l'uomo che non deve chiedere mai. E infatti...
Dopo tre, e dico tre, ore in fila per parlare con ben sette insegnanti, ecco quello che mi ha raccontato:
- il giudizio dell'insegnante di storia e geografia della Lolla è stato che la bambina è molto carina (sarà un suggerimento velato affinché non sprechi tempo con lo studio e si dedichi a qualcos'altro?);
- l'insegnante di storia, scienze e geografia di Ieie si è complimentata per il lavoro scritto richiesto ai genitori, una lettera in cui raccontavamo le circostanze della nascita dei nostri figli; a quanto pare la mia l'ha commossa, sicché posso dire che con i compiti delle elementari ancora me la cavo. Si va bè, ma mio figlio?
- la fila più lunga pare sia stata quella dell'insegnante di matematica della Lolla "tutti i genitori stavano dentro a parlare con lei per ore. Tranne me, io mi sono sbrigato subito", e come ti sbagli;
- dopo tre ore di assenza, se non mi fossi impuntata per avere maggiori dettagli, il resoconto del marito sarebbe stato "Tutto a posto, i bambini non hanno problemi a scuola".
Gli elementi di cui sopra sarebbero i maggiori dettagli.

giovedì 1 dicembre 2016

Che forza...

"Mamma sai cosa ci ha raccontato la maestra di storia, scienze e geografia? Ci ha detto che quando andava all'università, una volta, aveva passato tutta la domenica a divertirsi e non aveva studiato e il lunedì il professore l'ha interrogata".
"Allora lei sai che ha fatto? Ha aperto tutti i cassettini della memoria e ha preso i ricordi che aveva e alla fine ha risposto ed è andata bene".
"Mmh mmh".
"Pensa, che forza: non aveva studiato però è andata bene lo stesso!".
"Già, che forza...".

martedì 15 novembre 2016

50 anni in un secondo

"Sai mamma oggi a scuola sono venuti due signori a fare la presentazione di un libro, si chiamavano Francesco e Matteo".
"Ah davvero, e di che parlava il libro?"
"Di Tito Schipa. Però praticamente, sai Matteo Salvini, quello dell'Italia?"
"Vuoi dire il segretario del partito della Lega Nord"
"Eh. Insomma Francesco somigliava a Matteo Salvini"
"...."
"...."
"E tu com'è che conosci Matteo Salvini?"
"Perché l'ho visto sul telegiornale"


"Ieie lo sai che domani per il mio compleanno andiamo a mangiare fuori con tutti gli zii?"
"Ah sì?"
"Sì, c'è la zia C. e lo zio A., lo zio G. e la zia F. Sei contento?"
"Veramente papà, la cosa non mi entusiasma molto"

Ieie, neanche otto anni, i riferimenti culturali e il vocabolario di un cinquantenne.

venerdì 11 novembre 2016

Harry Potter e la maledizione dell'erede

Ciao Harry, è stato bello ritrovarti dopo tanto tempo. Dopo esserci visti, e rivisti, per un po', sulle stesse pagine, fino poi a capire che era finita, e così doveva andare.
Erano passati dieci anni, nella realtà, e diciannove nella finzione e devo ammettere che avevo un po' di timore perché la tua storia era finita come doveva finire e rimetterci mano poteva essere pericoloso. E deludente. E poi ricordo ancora il trauma giovanile di Pocahontas II, quando scoprii che dopo tutto quello che lei e John Smith avevano passato insieme, lui era diventato un giramondo refrattario all'amore e lei aveva già trovato un altro per rimpiazzarlo. Non si fa così! Sarebbe come scoprire che Cenerentola ha sposato il principe solo perché era ricco e le avrebbe preso una colf.
In aggiunta un testo teatrale, non so, pensavo non fosse roba per te, roba per noi. Niente descrizioni, solo dialoghi, una gestione del tempo così differente a quella alla quale eravamo abituati, pochi anni trascorsi solo nelle prime pagine.
Poi però mi sono dovuta ricredere. Perché là dentro c'eravate tutti voi, tu, Hermione, Ginny, Ron, Draco. C'erano le atmosfere magiche così note e quegli incantesimi che solo a sentire la formula sappiamo già di che si tratta.
E c'eri tu. Che adesso hai la mia età e sei proprio come me, incasinato, con le carte che si accumulano sulla scrivania, le giornate da assemblare tra lavoro e famiglia, i figli che ti mettono in crisi e fanno vacillare le tue poche certezze.
Soprattutto c'è il tuo secondogenito, Albus, così diverso da te, che ti dà tanti problemi. Con lui non riesci proprio a capirti. E ci credo. E' un Serpeverde, odia Hogwarts e per di più il suo migliore amico è il figlio di Malfoy. Eh no, non ti somiglia per niente, non ha ereditato da te nemmeno un po' del tuo carisma, del tuo coraggio, del tuo spirito avventuroso...ma sarà vero?
Che dire, Harry, è stato bello rivedersi anche se per poco, pochissimo. Perché la tua mamma, anche se in questo caso ha lavorato in compagnia, ti ha trattato, ci ha trattato con rispetto. Ha ridestato quel mondo magico e bellissimo al quale appartieni (a proposito, ma quanto sarebbe bello se anche noi italiani potessimo vederlo a teatro? che poi come li hanno realizzati tutti quei cambi di scena?) senza stravolgerlo, seppur raccontando una storia nuova e inaspettata.
Anche stavolta è andata come doveva andare. Ciao Harry, non so se ci rivedremo ancora. In ogni caso, quando la nostalgia busserà, ho otto tuoi ricordi dove andare a ritrovarti.


Harry Potter e la maledizione dell'erede, di J.K. Rowling, John Tiffany e Jack Thorne, Salani editore, trad. di Luigi Spagnol

mercoledì 26 ottobre 2016

Saldi di fine scuola

L'avevo notato quando Ieie faceva la prima elementare, poi avevo lasciato perdere, erano altri tempi, mi ero detta, "parliamo di oltre trent'anni fa" ridevano conoscenti e amici facendomi sentire come quelle vecchine che da bambina vedevo rimbrottare con biasimo i giovani troppo disinibiti.
Poi, quest'anno, con la Lolla sbarcata alle elementari, non ho saputo resistere e sono andata a rivedere i miei vecchi quaderni di prima. E ho avuto la conferma.
Dopo un mese di scuola, noi già scrivevamo in corsivo, con la penna, sul quaderno a righe. Oggi, per quella che è l'esperienza con i miei figli, si va avanti con lo stampatello (maiuscolo) fino a novembre, e il corsivo, le righe, la penna, arrivano solo dopo Natale.
Cos'è, noi eravamo più bravi, più intelligenti? Da quel che mostrano i miei quaderni, un mese dopo l'inizio della scuola il corsivo era ben padroneggiato, le pagine ordinate, i margini rispettati.
Il mio quaderno a un mese dall'inizio della scuola
Ok, ho pensato, forse ai miei tempi non tutti riuscivano a raggiungere quei risultati, forse la maestra andava avanti trascurando chi rimaneva indietro e portandosi appresso lacune insanabili. I ritmi estremamente rallentati di oggi consentono invece di tenere tutti allo stesso livello. Ma è questa la soluzione? Per aiutare chi ha più difficoltà abbiamo facilitato la scuola. Che è come dire che chiudendo le aziende, peggiorando i trasporti e abbassando la qualità dei servizi sanitari del Settentrione saneremo finalmente il gap tra Mezzogiorno e Nord Italia.
Impegnarsi meno per impegnarsi tutti, potrebbe essere lo slogan di questo contratto di solidarietà della scuola, dove nessuno vince: chi è meno dotato, perché non viene aiutato a crescere, e chi ha invece maggiori talenti perché non saranno valorizzati.
A un mese dall'inizio della scuola, oggi
A tutto ciò si aggiunge una parcellizzazione, delle maestre (in media quattro o cinque per classe), dei libri, dei quaderni (sette, uno a materia e infatti in poco più di due anni Ieie ne ha consumati quanti io in tutte le elementari), che non fa che confondere i bambini. Ieie, per non sbagliarsi, se li porta tutti appresso nello zaino che nemmeno quando giravo col Rocci era così pesante. La Lolla, invece, è già la terza volta che si confonde sui libri da lasciare a scuola e quelli da portare a casa. Ma d'altronde non sa nemmeno leggere, cosa le si può rimproverare?
Non so, sono davvero amareggiata. Non riesco a gioire di tutti i bravissimi che i miei figli portano a casa, se le pagine sono disordinate, pasticciate e a volte con degli errori. Mi sembra che la scuola incoraggi la mediocrità. E di questo non incolpo le maestre, che si limitano a seguire un programma, ma un sistema che ha svalutato l'importanza dello studio. Il sistema, e anche noi genitori.
E' di qualche giorno fa la domanda stupita di una mia amica "ma come, i tuoi figli hanno compiti di sabato?". Esce fuori che nella classe di suo figlio le mamme hanno convocato una riunione con la maestra, protestando contro i compiti al sabato che impediscono alla famiglia di andarsi a divertire.
Proprio così.
Inutile dire che le mamme hanno avuto la meglio, e non è il primo caso simile che sento.
La verità è che noi genitori siamo i primi a voler facilitare la vita ai nostri ragazzi, in maniera eccessiva e ingiustificata. Una volta cresciuti, però, quando scopriranno che al lavoro non esiste orario, non ci sono sabati né domeniche e spesso, nonostante tutto questo, il salario non corrisponderà alla fatica fatta, potrebbero accusarci di averli imbrogliati.

venerdì 21 ottobre 2016

Il sesso inutile

Nel 1960 a Oriana Fallaci, giornalista dell'Europeo, viene proposto un reportage sulla condizione delle donne nel mondo. In un primo momento rifiuta, la cosa la mette a disagio poiché "le donne non sono una fauna speciale" e non capisce perché "debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico". Sarà un incontro con una sua conoscente, giovane, carina e di successo, ma profondamente infelice e convinta che quello femminile sia il sesso inutile, la stessa che ispirerà il personaggio di Giovanna in Penelope alla guerra, a farla ritornare sui suoi passi. 


Mi venne in mente che i problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d'essere donne.


E' l'origine de Il sesso inutile, un reportage le cui tappe sono le stesse di Phileas Fogg ne Il giro del mondo in 80 giorni, e che tocca quindi diversi Paesi asiatici (Pakistan, India, Malesia, Cina e Giappone) le Hawaii e gli Stati Uniti. Il resoconto lascia scoperta una buona fetta di mondo, ma investe Paesi percorsi da venti di cambiamento: l'India post Gandhi, la Cina di Mao e il Giappone ricostruito sotto l'egida del generale Mc Arthur. Anche per questo molte situazioni parrebbero oggi già superate e nel lettore resta il dubbio su quale sia, attualmente, la condizione della donna in quei contesti. Il libro tuttavia, oltre ad essere un ulteriore esempio dell'acume e della capacità di analisi della Fallaci, mai banale nelle sue osservazioni, ci illumina sul passato di molti popoli e, si sa, la storia è essenziale per comprendere il presente,


Il concetto del matrimonio come contratto sociale anziché come atto d'amore è un concetto asiatico che resiste da millenni sull'intero continente e che gli europei comprendono poco.


e ci presenta cambiamenti le cui conseguenze possiamo individuare nelle nostre società. Basti pensare a quell'omologazione che aveva investito, fino a far perdere loro ogni peculiarità, le isole hawaiane e che rappresenta i primordi dell'odierna globalizzazione. O quella corsa alla limitazione delle nascite che faceva giubilare il Giappone perché finalmente, nel 1957, la percentuale delle morti era pari alle nascite.
C'è spazio anche per la condizione della donna nell'Islam, un tema che, all'epoca, non si immaginava sarebbe divenuto di scottante attualità.


C'è molto sole sui Paesi dell'Islam: un sole bianco, violento, che accieca. Ma le donne mussulmane non lo vedono mai: i loro occhi sono abituati all'ombra. Dal buio del ventre materno esse passano al buio della casa paterna, da questa al buio della casa coniugale, da questa al buio della tomba. (...)Sono dunque le donne più infelici del mondo, queste donne col velo, e il paradosso è che spesso non sanno di esserlo perché non sanno ciò che esiste al di là del lenzuolo che le imprigiona.


Ma, in definitiva, c'è qualcosa che accomuna le donne a qualsiasi latitudine vivano? Un aspetto c'è, e la Fallaci ce lo rivela, come un'illuminazione, nel finale, mentre discorre con un'annoiata newyorkese, il prototipo della donna realizzata. E' una conclusione amara, spiazzante, che pone a ognuna di noi più di un interrogativo.
Ma questo è un capitolo a parte. E prima di affrontarlo, la lettura del libro è ampiamente consigliata.


Oriana Fallaci, Il sesso inutile, Bur

martedì 27 settembre 2016

L'amica geniale

Lenù e Lila sono due bambine della periferia napoletana: a raccontare la loro storia è Elena, Lenù, ormai sessantenne, dopo aver saputo che Lila è misteriosamente scomparsa, come da tempo desiderava fare, cancellando ogni traccia del suo passato.
Comincia così L'amica geniale, il primo libro della quadrilogia di Elena Ferrante che ci porta in un povero rione della Napoli del secondo dopoguerra. Conosciamo Lila che è sporca, cattiva, sempre pronta a misurare le reazioni altrui con comportamenti imprevedibili. Elena ne è quasi calamitata e fa di tutto per diventarne amica. Compagne di scuola, Lila dimostra sin da subito una straordinaria intelligenza e, nonostante provenga da una famiglia di scarsissimi mezzi, si dimostra la migliore della classe. Elena, che pure è brava e studiosa, cerca di non essere da meno, misurando ogni traguardo in un perenne confronto con l'amica. Per Elena niente ha valore se non è importante anche per Lila, una tendenza che si ripeterà nel corso degli anni. Anche quando Lila, finite le elementari, sarà costretta dai genitori ad abbandonare la scuola, studiando così di nascosto, mentre Elena potrà continuare il percorso scolastico.
Tra alti e bassi le due amiche continueranno a rimanere legate, finché Lila, abbandonata ogni velleità intellettuale, trasformatasi tardivamente da brutto anatroccolo in cigno che affascina ogni giovane del rione, deciderà di investire tempo ed energie in un buon matrimonio. Un matrimonio che salvi lei e la sua famiglia, un matrimonio che pare d'amore ma sui cui risvolti, sentimentali e non, Elena sembra nutrire perplessità.
Sarà poco prima di recarsi all'altare che Lila, in un capovolgimento di aspettative, chiederà ad Elena, la sua amica geniale, di continuare, almeno lei, a studiare, per riscattare la gente del rione.
Dotato di personaggi affascinanti, di una narrazione sapiente che, pur nella semplicità della trama, riesce ad avvincere il lettore, L'amica geniale è l'esempio di come a volte, più della storia in sé, conti la capacità di raccontarla.
E all'autrice questo talento non manca, al punto che percorrendo le pagine del libro mi sono risuonate in mente altre voci, da Lalla Romano a Natalia Ginzburg fino a Simone De Beauvoir. Tutte scrittrici che con i loro testi autobiografici ci hanno condotto nei loro piccoli e intensi mondi personali, tra volti familiari impegnati nel viaggio della vita, con una forza comunicativa indimenticabile.
Con questo non voglio dire che L'amica geniale sia un'autobiografia, del resto della Ferrante ben poco si sa e non si è certi nemmeno che questo sia il suo vero nome, tuttavia la bellezza del romanzo scaturisce proprio da questi aspetti. Da una storia che  potrebbe essere vera, e per questo ancor più interessante, da personaggi normali, ma così ben costruiti che diventa difficile stancarsene. Il cliffhanger finale (senza dimenticare il prologo che lascia più di qualcosa in sospeso), sono la ciliegina sulla torta del racconto: il bisogno di sapere cosa succederà è prorompente. Di Lila e Lenù vogliamo ancora sentir raccontare, come se fossero anche nostre amiche.

L'amica geniale, Elena Ferrante, Edizioni e/o

lunedì 12 settembre 2016

L'ultimo dei primi

Schoolbag in hand, she leaves home in the early morning
Waving goodbye with and absent-minded smile
I watch her go with a surge of that well-known sadness
And I have to sit down for a while
The feeling that I'm losing her forever
And without really entering her world
I'm glad whenever I can share her laughter
That funny little girl

E' da un po' che questa canzone mi risuona nella testa, complice il fatidico primo giorno di prima elementare della Lolla che nella mia mente appariva come nel testo degli Abba, un po' in slow motion e in tonalità confetto.  Poi, si sa, le cose non vanno mai come te l'eri immaginate. E per carità, il primo giorno è andato bene, ma anche in questa occasione così speciale lei è riuscita a farmi girare i cabasisi, come direbbe il buon Montalbano, al punto che stamattina, invece del groppo in gola al momento di lasciarla  a scuola, ho tirato un gran sospiro di sollievo.
In ogni modo è partita anche lei e per me, non posso nasconderlo, c'è la malinconia di sapere che sarà l'ultima volta che accompagno un figlio in prima elementare.
Quelle gambe esili che quest'estate si sono allungate nei pantaloncini, quelle canottiere alle quali a inizio stagione avevamo accorciato le bretelle e che ora risalgono sulla pancia, mi dicono che, voglia o non voglia, mi piaccia o non mi piaccia, mia figlia è cresciuta.

Fatico ancora ad abbandonare l'immagine della bimbetta che riveste sempre nella mia mente, c'è qualcosa che stride tra quel dito in bocca che a casa sfoggia con nonchalance e l'aria sicura e baldanzosa che assume quando sta con altri bambini, specie se più grandi di lei. Mi fanno paura, devo dirlo, certi atteggiamenti insolenti che di tanto in tanto rispuntano e che solo a prezzo di sgridate solenni riesco a moderare, atteggiamenti che sfodera anche con i genitori pur di far colpo sugli altri. Temo la consapevolezza con cui esercita il suo fascino sugli altri. La temo perché è qualcosa che io non ho mai posseduto e che ho solo visto, con disgusto, in altre persone.
E' bello piacere, vedere gli amici che ti corrono incontro, ti chiamano e ricercano le tue attenzioni. Però è anche bello approfittare di questo ascendente per farsi amare e non per esercitare un potere sugli altri. Spero che col tempo lei lo capisca e faccia buon uso di questa dote. Io, per parte mia, farò il possibile perché non perda mai quel lato di funny little girl che a mio avviso è ciò che la rende veramente speciale e amabile.

giovedì 1 settembre 2016

Denti birichini

Dicono che più tardi spuntano i primi dentini, più tardi cadranno. Visto che Ieie, provvisto di dentatura non prima dei dieci mesi, ci ha messo sei anni e mezzo per iniziare il cambio, la Lolla, che ha ci ha fatto aspettare un anno per il suo primo incisivo, era, nei miei pensieri, ben lontana da questo traguardo. 
Per questo quando stamattina ha iniziato a piangere urlando "Il mio dente!",  mentre un fiotto rosso sgorgava da un buchino nella bocca, mi sono sentita scavalcata dagli eventi. E mi ha preso il panico. Perché il piccolo incisivo non si trovava, perché per me non doveva succedere adesso, perché, chissà, forse non era caduto ma se l'era semplicemente rotto.
E poi invece, ho dovuto accettare che la mia bambina, 5 anni e 5 mesi, avrà ben presto un sorriso nuovo.
"Ah la mia Lolla sta crescendo. Non è più la piccola della mamma".
"No mamma, non ti preoccupare. Quando cresco me ne vado di casa, adesso non sono ancora cresciuta".
Va be', vista così ce la posso fare.

mercoledì 31 agosto 2016

Anna Karenina

Si chiama Anna Karenina, ma a dispetto del titolo, questo celeberrimo romanzo di Lev Tolstoj vede spesso la protagonista in secondo piano. Non è lei ad aprire il libro, né tantomeno a chiuderlo, e non compare nemmeno nella maggioranza dei capitoli.
Bandita dalla buona società per la scelta di abbandonare marito e figlio e seguire il suo amante, Anna è suo malgrado defilata anche nel romanzo, quasi a segnare l'esclusione, lo stigma che la colpisce e che avvelenerà il suo rapporto con Vronskij. Costretta a una vita di isolamento, mentre Vronskij, ufficialmente scapolo, potrà continuare a frequentare i salotti che contano, Anna sarà invasa da un'insana quanto insensata gelosia che logorerà la sua relazione fino al tragico epilogo.
Chi sono allora i protagonisti di questo romanzo nel quale si riscopre tutta la bravura di Tolstoj nell'incastonare tante piccole storie per comporre un racconto di grande respiro? Dove, come in Guerra e pace, il lettore viene portato per mano nelle dimore e nelle tradizioni del popolo russo, e la storia è fatta da persone comuni e dalla vita di tutti i giorni?
Sono Stiva, fratello di Anna, e la moglie Dolly, che all'inizio del romanzo Anna dissuade dal lasciare il marito fedifrago; Kitty, che dovrà rinunciare a Vronskij quando lui le preferirà Anna, e Levin.
Tre coppie che, come spiega Eraldo Affinati nella sua introduzione, rappresentano i paradigmi di varie forme di amore. Quello coniugale di Stiva e Dolly  che cerca di rispettare le convenienze; quello assoluto e passionale di Anna e Vronskij; e quello fatto di stima, affetto profondo e comprensione di Kitty e Levin.
Tolstoj non dà giudizi, non condanna Anna. Ma non posso fare a meno di pensare che sia il legame di Levin e Kitty quello che vorrebbe portarci a modello. Altrimenti non si spiega la piega disastrosa che fa prendere alla storia della sua eroina. Proprio quando il marito la lascia libera di andarsene con l'amante, Anna, anziché trovare la felicità, precipita in un vortice di autodistruzione. Incapace di vivere serenamente il sentimento per Vronskij, la gelosia e la paura di perdere l'unico bene che le è rimasto la porteranno a divenire tragica e dispotica, folle e perduta.
Sembra quasi che Tolstoj ci voglia dire che anche il più grande degli amori deve rispettare certe regole, deve correre sui giusti binari. Altrimenti rischia di deragliare.


Anna Karenina, Lev Tolstoj, Newton Compton Editori, trad. di Enrichetta Carafa d'Andria

lunedì 29 agosto 2016

Arrivederci

E poi, immancabilmente arriva lei.
Da ragazza contavo con cupidigia gli ultimi giorni di agosto e i superstiti di settembre per rincuorarmi e allontanarne il pensiero, adesso l'età non mi consente più queste facili illusioni e gli amici che all'improvviso svuotano il paesino mi danno la certezza: la fine dell'estate è arrivata.
Me lo dice l'aria fresca, il sole meno pungente e dai mille riflessi dorati, le barche che ritornano sempre prima dal mare, quel golfino che diventa indispensabile la sera. E l'aria di malinconia che si confonde con gli effluvi dei flaconi mezzi vuoti di crema solare.
Ben presto, col solito rituale strappacuore, anche noi diremo addio al paesino, alla salita vicino casa oltre la quale sai sempre di poter trovare compagnia, perché una manciata di case concentra così tanti amici grandi e piccini da confonderti i sensi. Saluteremo quel porticato noto dove chiacchierare mentre i bambini si rincorrono, il mare che con i suoi riflessi ti parla e ti tiene compagnia ogni volta che ti affacci alla finestra, la sensazione di perenne libertà che ti si appiccica addosso come la salsedine.
Perché, al di là dello struggimento nostalgico che colpisce puntuale al rientro dalle vacanze, ciò che più mi pesa è proprio la prospettiva di ritornare a chiudermi in casa, del riabituarmi a una routine fatta di un tetris di impegni, di sapere che non è più possibile percorrere la salita per sentirmi meno sola. A qualsiasi ora.
E così addio alle passeggiate dopo cena. Il divano del soggiorno ritornerà protagonista delle nostre serate. Addio alla caccia ai granchi, alle partite di beach volley, alle corse in bici sul lungomare. Il tempo al chiuso, ahimè, diverrà sempre di più e per rivedere gli amici bisognerà prendere appuntamento. E un'automobile.
Anche questa estate, volata via con una velocità incredibile, costellata suo malgrado di qualche imprevisto, va a iscriversi nel libro dei ricordi. Tra un po' ne parleremo come di quelle che sono già state, "Ti ricordi quando...?", per adesso possiamo solo godere degli scampoli rimasti. E percorrere per le ultime volte la nota salita.


martedì 16 agosto 2016

Vorrei ma non posto

Io non so se accadeva anche prima, fatto sta che l'ho notato solo questa estate.
Succede che la casa del paesino si affaccia su un percorso battuto dai turisti: proprio sotto al nostro balcone si trova un belvedere dove, da sempre, la gente si ferma a scattare fotografie. Un tempo erano le classiche foto di gruppo o di famiglia con la costa e il faro sullo sfondo, un abbraccio di due innamorati, i figli in piedi uno accanto all'altro.
Da quest'anno ho assistito ai photo set più assurdi. La bambina in bilico sulla stradina in salita, poggiata al cancelletto arrugginito; la ragazza sbracata sul muretto, una mano fra i capelli, l'altra a reggere la schiena; un'adolescente verticalmente spiaggiata sul muro al punto che ho pensato "Oddio la ragazzina si sente male". Poi dietro di lei ho visto il padre piegato a 90° come Karl Lagerfeld e ho capito che no, non stava male.
Devo ammettere che i soggetti di questi scatti sono prevalentemente donne, giovanissime, e a immortalarle ci sono i genitori, più spesso i padri.
La ragione di questa nuova moda sta nel fatto che è ormai passato il tempo in cui le foto delle vacanze finivano in un album destinato ad allietare le cene con parenti e amici. Oggi le foto delle vacanze, grazie ai social, arrivano direttamente a casa. E poco importa che quest'anno la cellulite sia aumentata, che la vacanza sia trascorsa litigando col partner e il tour operator scelto faccia schifo: l'imperativo è uno solo, mostrarsi felici e contenti. E magari suscitare un po' d'invidia. Perché per alcuni postare è come dare un tocco di photoshop alla propria vita. E qui ritorno ai turisti del paesino.
Qualche giorno fa sul lungomare si aggirava una graziosa, giovane donna, una reflex al collo e uno smartphone in mano. Camminava sola, il musetto serio serio, poi, trovato uno scorcio che le piaceva, si è fermata, ha alzato lo smartphone, atteggiato il viso in un bellissimo sorriso e scattato. Il tempo del flash e la sua faccia, come quelle bambole antiche alle quali girando la testa cambiavi espressione, è tornata a incupirsi.
Improvvisamente ho sperato che da qualche parte nelle vicinanze ci fosse qualcuno ad aspettarla, che non fosse sola come sembrava. O quanto meno che fosse veramente felice come si era ritratta in quel selfie. Altrimenti è proprio vero, come dice la canzone, che non c'è 
Un senso a questo tempo che non dà
Il giusto peso a quello che viviamo
Ogni ricordo è più importante condividerlo
Che viverlo.

martedì 9 agosto 2016

La via del male

E poi ci sono dei libri che sono come una droga. Non riesci a staccartene, fai fuori un capitolo dopo l'altro e quando mancano appena cento pagine alla fine sei disposto anche a fare le due di notte per leggere l'agognata conclusione. Salvo sentirti, dopo, in astinenza, disposta a rileggere quelle pagine pur di non rimanerne senza.
Mi succede sempre così con i libri della Rowling, maestra, a mio giudizio, nel tessere trame letterarie. Lo è stata con la saga di Harry Potter, continua ad esserlo con lo pseudonimo di Robert Galbraith, l'autore della serie di volumi dedicati al detective privato Cormoran Strike. Il terzo, La via del male, è uscito a giugno in Italia e si apre poco dopo la fine de Il baco da seta.
Seguendo una tradizione già inaugurata ai tempi di Harry Potter, ogni libro, pur presentando un nuovo intricatissimo caso, si ricollega ai precedenti intrecciando l'attività professionale di Cormoran, un ex militare dal fascino burbero e solitario, con la sua vita privata e quella della sua segretaria e collaboratrice, la brillante e solare Robin Ellacott.
In questo nuovo thriller, dai toni decisamente più foschi e truci, la loro agenzia investigativa dovrà scoprire chi e perché si diverte a terrorizzarli, inviando loro parti di un corpo umano. Contemporaneamente scopriremo nuovi elementi sul passato dei due protagonisti e anche il loro rapporto farà dei passi avanti.
Rispetto alle precedenti indagini, questa volta la dinamica della storia appare più statica, anche perché Cormoran e Robin non avranno un caso su cui indagare, quanto più che altro una minaccia da sventare. Li vedremo in giro per la Gran Bretagna a esplorare i bassifondi delle perversioni umane, niente a che vedere con lo sfavillante mondo della moda e con le gelosie e le ripicche dell'editoria che avevano fatto da sfondo ai primi due romanzi.
Anche stavolta Galbraith/Rowling ci porterà a spasso per Londra che, tra mercatini, locali per adulti e pub, sembra un caleidoscopio ricco di infinite combinazioni. Lo stile è quello semplice e preciso che avevamo conosciuto con Harry Potter e la bravura dell'autrice nel lasciarti a bocca aperta sul finale non delude mai. Stavolta, infatti, dopo averci comunicato il nome dell'assassino, ci butta lì un colpo di scena di quelli che vorresti averla davanti per farle un inchino.
Col senno di poi, potrei dire che il "colpevole" si poteva scoprire perché gli elementi, in effetti, ce li aveva dati tutti. Ma lo posso dire solo alla seconda lettura e ad assassino scoperto, perché la Rowling è così brava nel disseminare indizi, quanto nel non farti capire che lo sta facendo.
A questo punto non posso fare altro che aspettare il quarto volume della serie per sperare di migliorare le mie doti investigative. Perché un quarto volume? Perché basta leggere La via del male per capire che le indagini di Cormoran e Robin non sono ancora finite.


La via del male, Robert Galbraith, Salani, trad. di Francesco Bruno

sabato 30 luglio 2016

Una normale giornata d'estate

La mattina è il mare, l'acqua cristallina, il fondale selvaggio di scogli muschiati che ti raschiano i piedi.
Al calar del sole arrivano le biciclette, a mucchi. Col cestino o con gli adesivi, fucsia e superaccessoriate o scalcagnate eredità dai fratelli maggiori. Solide su quattro ruote o malferme su due.
Poi è tempo di un mago, che con i suoi inspiegabili trucchi intrattiene i più piccoli per un'ora. Piccoli sudaticci, assetati, ridenti e sdentati con i baffi di sugo e le mani unte di pizza.
Un porticato, il tepore incantato di luglio che ti fa dimenticare giacche e golfini, un po' di cozze comprate sulla strada del ritorno dal lavoro. Et voilà ecco una spaghettata, mentre i piccoli giocano e i grandi si lasciano andare ai ricordi. Quella che per cui si presero a botte. Il prepotente ante litteram che sceglieva le sue vittime e le tormentava, perché i bulli esistevano anche quando non sapevamo come chiamarli. L'amico che si fidanzò, in tempi diversi, con due sorelle. Ma sarà che Beautiful l'abbiamo inventato noi?
Tre smorfiosette che giocano a farsi i capelli; piccole canaglie che si inseguono urlando, l'ultima della fila ha ancora il pannolino; un bambino e una bambina quasi ottenni che si tormentano in continuazione lanciandosi sguardi tra divertiti e ammiccanti; la bimba col pannolino che se lo sfila annunciando "Pipì!".
Una pista da ballo sotto casa. Un dee jay che propone il meglio degli anni '90 per invogliare alle danze: decisamente non riusciamo a mostrare meno della nostra età. Un marito che chiude a casa la moglie, la figlia e il cane, per tornare a ballare senza rimbrotti. Ballare con la consapevolezza dei 39 anni, quando non  hai più paura di essere ridicola o di sfigurare e vuoi solo divertirti. Una moglie accigliata che si libera e ritorna sulla pista con l'aspetto di una banshee. E che poi si mette a ballare.
Una normale giornata d'estate.

mercoledì 27 luglio 2016

Sere d'estate

E' stato un inverno lungo e faticoso, fatto di imprevisti e momenti down e poi telefoni che trillano e che comunicano qualche gatta da pelare, al punto che non sopportavo più il suono del cellulare. Poi ogni tanto le cose sembravano migliorare, tiravi il fiato, pensavi che il peggio era passato e che forse si poteva guardare avanti con serenità quando, driiin, squilla il telefono e arrivano altri casini da risolvere.
Niente di grave, per carità, è che però a un certo punto ti chiedi se sarà sempre così. Se la maturità comporta un affastellarsi di responsabilità e grane. Un addormentarsi con un milione di pensieri in testa e risvegliarsi facendo l'elenco delle matasse quotidiane da sbrogliare.
Poi finalmente arriva l'estate e torni qui, al paesino. Il luogo dove posso ricucire le trame della mia vita, quello che con la sua costante presenza, estate dopo estate, mi ricongiunge col passato e diventa scenario di nuovi ricordi. La casa del paesino è la casa dove mi sembra di rincontrare mia nonna, l'unico posto dove ho vissuto con lei sotto lo stesso tetto. Il piacere che provo è condiviso dai miei figli, Ieie in particolare, entusiasti, a loro volta, di passare le vacanze al mare con i nonni materni.
L'altra sera, per dire, davano alla radio l'Estate sta finendo, dei Righeira, e Ieie si è rattristato nel sentirla. "Mi sembra che uccida il paesino", ha detto.
E così siamo di nuovo qui. Queste estati tutte uguali, si fa per dire, possono sembrare noiose, ma a me e mio figlio, di indole conservatrice, piace così. Il paesino ha perso molto del suo fascino, complice un mega porto che se l'è sbranato sputando una carcassa che è solo il pallido fantasma di quel che era. Ma tant'è, io e i miei amici ci siamo affezionati e ci torniamo con piacere. Perché qui, in questo isolamento fuori dal mondo, tiriamo un po' il fiato dalle fatiche che, con carico minore o maggiore, tutti dobbiamo sopportare e riscopriamo la gioia delle lunghe estati insieme da ragazzi.
Quest'anno, poi, ricorrono trent'anni da quando conobbi le prime amiche. Fu il mio cane a fungere da "gancio". La più piccola di noi aveva appena sei anni, era in procinto di inizare le elementari e, sedute davanti a casa di sua nonna, in quei pomeriggi lontani nel tempo, le suggerivo parole bisillabiche che lei provava a scrivere in stampatello.
Eppure sembra ieri. Adesso, come trent'anni fa, è la Lolla che deve fare il suo ingresso alla primaria. Qualche sera fa la guardavo giocare con i figli di quelle mie amiche incontrate tramite un cane. Facevano i nostri stessi giochi, in quello stesso posto, lo spiazzo della locale Lega Navale, dove ci rincorrevamo noi. 
Non mi sono comossa. Non ho pensato a niente. Li ho guardati giocare e poi sono tornata a parlare e mangiare con le vecchie amiche, come ho fatto in tutti questi anni. Forse è questa la continuità che dà un senso alla maturità.

lunedì 25 luglio 2016

Briciole al tempo

Non ricordo bene come è iniziata. Era la prima media e io avevo fatto gruppetto con alcune bambine conosciute da poco, sentendomi accusare di tradimento dalle vecchie compagne delle elementari che erano ancora in classe con me. Lei occupava il banco dietro al mio, con i suoi voluminosi capelli ricci che era costretta a legare per non ostacolare la visuale ai compagni delle file posteriori.
In un modo o nell'altro dovemmo trovarci simpatiche, sentire, annusare, una certa affinità, perché un giorno mi invitò a casa sua. Ricordo esattamente che appena entrata, dall'ingresso scorsi la sua camera con un castello rosa fatto di costruzioni e alcuni gattini di ceramica che troneggiavano su una mensola. Quella casa mi pacque subito, e mi piacque la sua giovanissima mamma che sapevo aver vissuto all'estero e bilingue. Era simpatico anche il suo papà che giocava a nascondino con noi.
Fu l'inizio di una bellissima amicizia. Lei fu la prima amica che non era più solo una compagna di giochi, ma una confidente di quell'età meravigliosa e strana che è l'adolescenza. Cantavamo le canzoni di Sanremo leggendole da Tv Sorrisi e Canzoni, giocavamo in casa a pallavolo, sport di cui entrambe eravamo appassionate, lasciandoci dietro danni ancora visibili. Ma soprattutto facevamo lunghissime chiacchierate quando ci sembrava che solo in quello scambio reciproco potevamo trovare comprensione.
Furono due anni bellissimi. Poi un cambio di lavoro la portò via, in una città a oltre 800 chilometri. Tra le lacrime ci giurammo eterna amicizia.
Da qualche parte ho ancora il quadernone viola con lo scoiattolo su cui 28 anni fa scrisse l'indirizzo di casa sua, e la precisazione "portone verde scrostato" perché non avessi problemi a trovarlo. Ieri ci siamo riviste. Anche quest'anno, approfittando di una momentanea vicinanza, macinando qualche chilometro e rubando un po' di tempo alle ferie, agli impegni familiari e alla stanchezza, siamo riuscite a organizzare un breve incontro, un pranzo fuori con le nostre famiglie per vederci e aggiornarci, e ribadire che a dispetto del tempo che passa siamo ancora buone amiche.
Ed è stato bello scoprire che il desiderio di ritrovarsi era reciproco, nonostante per qualcuno in una domenica di luglio con temperature oltre i 30°, sarebbe più opportuno andare al mare .
Ma la verità è che adesso che il giro di boa dei quaranta si avvicina, non mi sembra più di avere davanti tutto il tempo del mondo, di poter recuperare i minuti che non si sono passati insieme e di poter riavvicinare gli amici che avevo accanto. Adesso più che mai so che quelle lacrime che versai quando lei se ne andò, erano quanto di più vero poteva esserci. La mia amica sarebbe andata via per sempre e quei lunghi pomeriggi insieme non ci sarebbero stati più. 
E allora se bisogna rubare briciole al tempo, in due si fa meno fatica.

lunedì 18 luglio 2016

Rayuela, Il gioco del mondo

Ci sono libri che divori con passione, e quando li hai finiti quasi ci rimani male perché non ti faranno più compagnia e allora puoi solo sfogliarli di nuovo alla ricerca delle emozioni vissute.
Ce ne sono altri che sono come l'idea di una scalata a piedi, sotto la tormenta, mentre sei lì alle pendici che guardi il monte: pensi che non ce la farai mai, a ogni passo misuri il percorso e, giunto alla fine, quando si chiude davanti ai tuoi occhi la quarta di copertina, non sei soddisfatto o felice, ma solo incredulo, e non vedi l'ora di passare ad altro.
A me è successo dopo due mesi dedicati a Rayuela, Il gioco del mondo. E dire che la descrizione della persona che me l'aveva consigliato mi aveva intrigato non poco. Il libro si legge in due modi. Il primo prevede un percorso lineare, capitolo per capitolo, il secondo avviene secondo uno schema fissato dell'autore.
Chissà perché, ma io avevo immaginato che ci fossero due storie. In realtà la vicenda è sempre la stessa, ovvero la storia del quarentenne argentino Horacio Oliveira che a Parigi vive una vita vagabonda, senza meta e senza lavoro. Le sue giornate trascorrono tra incontri con amici artisti o pseudo tali, fumate, bevute, riflessioni a gò-gò e in compagnia di Lucia, soprannominata la Maga, giovane uruguayana molto meno intelligente e brillante di lui. Infatti Horacio si premura di ricordarle, e di ricordarsi, che non la ama e, a un certo punto, quando lei è costretta a prendere in casa con loro il figlio avuto da una precedente relazione, decide anche di lasciarla, perché è evidente che la loro storia è finita e che lei ama un altro (tesi di Horacio). In realtà sarà la Maga, in seguito a una serie di vicende, ad uscire di scena, lasciando Horacio solo e incerto sul da farsi. Deciderà infine di far rotta verso Buenos Aires dove scombinerà la vita all'amico Traveler. Seguiranno un lavoro al  circo, in un manicomio e altri nonsense, intervallati da visioni della Maga che Horacio crederà di riconoscere in altre donne.
Detto così potrà sembrare avere una sua logica, ma io veramente ho fatto molta fatica a comprendere il senso del libro. E se alla seconda lettura l'inserimento di nuovi capitoli almeno chiarisce alcune situazioni che all'inizio sono solo abbozzate, la sensazione è comunque quella di trovarsi su una trottola che gira o in un labirinto senza uscita, disorientati da riflessioni simili ai flussi di coscienza dell'Ulisse di Joyce, da frasi lunghissime di cui si perde il filo, da intermezzi fuori luogo come stralci di articoli di giornale e testi di un fantomatico scrittore chiamato Morelli che secondo alcuni rappresenterebbe l'autore, Julio Cortàzar.
Eppure le recensioni di Rayuela, sia dei critici che dei lettori, sono un profluvio di lodi. Rayuela è "geniale", la seconda lettura è fitta di "sottotesti e sottotesti dei sottotesti", il romanzo è un compendio di conoscenze. Ora, per carità, Cortàzar ha sicuramente una cultura enciclopedica ed io ho colto solo una minima parte delle citazioni argute e delle metafore in cui il racconto è annegato. E' anche vero che rileggerlo aiuta a orientarsi meglio nel groviglio dell'intreccio e che forse servirebbe dedicargli molto più tempo e attenzione (di più?). Ma, al di là di tutto, mi chiedo se sono stata l'unica capra a non capirlo. Che ha provato un malessere, un senso di spaesamento, come se stessi facendo una gran fatica per niente. Come se mi trovassi davanti a uno sfoggio di bravura che però, a me, lasciava ben poco.

Rayuela, Il gioco del mondo, di Julio Cortàzar, Einaudi, traduzione di Irene Buonafalce

giovedì 7 luglio 2016

Valencia

Valencia è il blu dell'acqua. Del mare, del lago dell'Albufera e delle numerose vasche e fontane che punteggiano la città regalandole frescura, gite in barca e giochi.

Valencia è verde. Verde come le sue piazze dai prati lucidi e ordinati. Verde come i viali ornati di palme, le risaie e gli immensi giardini del Tùria che la tagliano a metà regalandole un paradiso in pieno centro.
Valencia è il bianco della Città delle Arti e della Scienza che con le sue linee avveniristiche fatte di curve, pieni e vuoti, sospensioni e tagli netti ci fa sognare la città del futuro. Città dove il "vecchio" è curato e amato, ma non impedisce la crescita armoniosa del nuovo.
Valencia è colorata. E' il rosso dei garofani in plaza della Reina e sul ponte dei Fiori (meraviglioso, io ci abiterei). I mosaici variopinti della stazione del Nord e le vetrate liberty del Mercado central. E' il rame delle cupole che si accendono al tramonto; i colori pastello delle facciate dei palazzi ottocenteschi, le nuance perlacee degli stucchi, le tinte accese delle ceramiche che rendono queste costruzioni quadri da ammirare col naso piacevolmente all'insù.
Valencia è traffico. Ma senza ingorghi e parcheggi in doppia fila. E' la sua gente sorridente e disponibile che se ti vede in difficoltà si avvicina per chiederti se hai bisogno d'aiuto. Sono i suoi operatori turistici che ti trattano come un cliente da accontentare, e non da spellare. E' il profumo speziato della paella, la dolcezza rinfrescante dell'orchata, gli ortaggi che troneggiano giganti sui banchi del mercato. Sono le piste ciclabili con tanto di semafori; i cani che non vanno "in bagno" dove camminano le persone, ma in spazi appositi; la spiaggia libera, pulita e dotata di fontanelle; i parchi giochi che, puliti e funzionanti, spuntano come funghi in ogni aiuola, perché Valencia ama i bambini.
Valencia è anche la periferia dall'aria povera e dimessa. Qui non troverai boutique di Louis Vuitton o palazzi di lusso, ma non ti imbatterai nemmeno in erbacce ad altezza d'uomo, marciapiedi divelti o mezzi pubblici latitanti.
Perché Valencia è pensata per viverci, è in funzione dei cittadini, siano essi ricchi residenti del centro o squattrinati studenti di periferia. Forse per questo, ogni opera realizzata, da uno scivolo al restauro di un monumento, reca fieramente il timbro di chi l'ha finanziata, la Generalitat valenciana.
Valencia, con quasi 800mila abitanti, è la terza città della Spagna, un Paese che economicamente non è che se la passi benissimo. E però qui, vai a capire perché, "non ci sono soldi" non è la frase di rito per giustificare un degrado dilagante.

martedì 28 giugno 2016

Bulli e pupe

"Io non sto più con M, adesso ho un altro fidanzato. M. sta con G.".
"Ma Lolla, è possibile che a scuola parliate sempre di fidanzati? Andate ancora all'asilo, siete un po' troppo piccoli per pensare a queste cose".
"Sì noi parliamo sempre di fidanzati".
"E voi Ieie? Anche nella tua classe parlate di fidanzate?".
"No, non parliamo".
"Cioè, a scuola non parlate tra di voi?".
"No, non parliamo di fidanzate. Noi parliamo solo di calcio".
La fissata dei ragazzi e il fissato del pallone. E' confortante osservare i tuoi figli diventare esattamente quello che non volevi diventassero.
E' così che cominciano a deluderti.

lunedì 27 giugno 2016

Da dove si exit?

Negli ultimi giorni il marito ha scoperto che il Cud inviatogli dal datore di lavoro (leggi: lo Stato), per il secondo anno consecutivo è sbagliato. Non solo dovrà pagare quanto non gli è stato detratto in busta paga, ma gli tocca pure una sanzione. Ovviamente chi ha compilato il Cud (leggi: qualcuno pagato dallo Stato), dopo essersi fatto cercare a lungo, ha applicato la famosa tecnica dello scaricabarile.
Contemporaneamente, dopo affannoso pagamento di Imu, ho scoperto di aver sborsato per un'area fabbricabile teoricamente confinante con casa mia, ma che in realtà non possiedo. Una parte infatti mi è stata usucapita, ma nessuno ha ritenuto di dovermi informare, dell'altra non v'è notizia al riguardo. Forse è dove il Comune, previo esproprio, ha costruito una strada, forse è stata accaparrata da qualcuno che ci ha costruito una casa sopra, ma che non vuole fare usucapione. Fatto sta che io pago per un terreno fantasma che non si sa cos'è e dov'è. E l'unica soluzione, è affidarmi a qualcuno che sbrogli la matassa.
Per finire, adesso che dopo settimane di fibrillazione la ristrutturazione (fatta a norma, col parere di Asl e Comune) di un locale di mia proprietà sembra essere al traguardo, scopro che il Comune, che è in procinto di rifare i marciapiedi in quella zona, mi chiederà di rimuovere i gradini di ingresso colà siti da oltre vent'anni e quindi di rifare la soglia.
Avrei proprio bisogno di una Brexit per lasciare l'Italia.

venerdì 17 giugno 2016

Adelante, con juicio, verso la primaria. O anche, questo non è un post sponsorizzato

"Nonna, nonna! Sai cosa ho letto alla televisione?".
"No Lolla cosa hai letto?".
"Tim".
"...".
"Ho guardato e ho letto. Ho fatto tutto da sola, non me l'ha detto nessuno".
"...".
"Non so nemmeno io come ho fatto".

martedì 7 giugno 2016

Care maestre

Era andato tutto bene. I bambini avevano cantato con brio e immedesimazione, la Lolla aveva fatto la prima donna ancheggiando sul palco neanche fosse Shakira, nessuno aveva sbagliato la battuta e, come da copione, qualche lacrimuccia aveva superato lo sbarramento delle palpebre materne.
E quando tutto sembrava finito, che ti combinano le maestre? Luci soffuse, silenzio, bimbi che si girano a guardare il muro ed ecco che ti parte un filmato con tutte le foto fatte durante questi tre anni. Le gite, le attività in aula, il teatro, A modo tuo di Elisa in sottofondo e le didascalie a commentare. Poi, per darci il colpo di grazia, gli scatti fatti a ognuno di loro, mammamunito, quel primissimo giorno di quel primo anno. Ci sono tutti, e i bambini si divertono a pronunciare i nomi in coro man mano che le foto scorrono sul muro. C'è anche una minuscola Lolla di due anni e mezzo, la faccia spaurita sotto un caschetto cortissimo, quasi maschile, in braccio a me abbronzatissima e felice (e vai, anche questa va a scuola!).
E lì il pianto, a dirotto, è quasi d'obbligo. Se poi ci metti il carico da 90 di una bellissima filastrocca che parla di bimbi che vanno a esplorare il mondo e la dedica delle maestre, poi ti spieghi tutte quelle mani smaltate che si strofinano gli occhi con nonchalance.

Oggi la Lolla e i suoi compagni hanno presentato il loro spettacolino di fine anno. E' stato quel che si dice un tuffo al cuore: ognuno di loro aveva una maglietta col proprio autoritratto e il nome scritto da loro. Ci hanno cantato le vocali, l'alfabeto e i numeri, perché in questi ultimi mesi le maestre sono riuscite a produrre, anche in bambini come la Lolla che non sapevano distinguere una A da una Z, una conoscenza (per me) insperata delle lettere.
A loro, alla maestra con gli occhiali e a quella senza occhiali, come le chiamano affettuosamente i bambini, va tutta la mia riconoscenza per il meraviglioso lavoro svolto in questi anni. E anche se la scuola non è ancora finita già mi mancano, perché è stato bello, ogni giorno per tre anni, sapere di lasciare mia figlia in un posto dove era felice di stare.

venerdì 27 maggio 2016

Penelope alla guerra

In una Roma anni '60, la ventiseienne Giovanna è una sceneggiatrice molto apprezzata. Bella e determinata, preferisce farsi chiamare Giò, perché è un nome fresco, frizzante e ben le si addice visto che ha deciso che non farà la fine di tante donne, non stirerà mai camicie e non piangerà. Ma Giò è anche un mix di contraddizioni, cinica e ingenua, indipendente e bisognosa d'amore, donna e bambina, che esploderà quando il suo produttore le regalerà una vacanza di due mesi negli Stati Uniti per preparare una nuova sceneggiatura.
In questa terra promessa, sognata sin da quando, dodicenne, ascoltava col cuore in preda agli spasmi del primo amore, i racconti di un giovane soldato americano in fuga dai tedeschi e mai più rivisto, Giò si imbatterà in Richard, che fragile, sentimentale e infantile, è il suo esatto opposto. Nascerà una storia tormentata, complicata dall'immischiarsi dell'amico Bill, e che, per un breve tempo, farà di Giò un'altra persona, un'amante votata al proprio uomo più che una donna indipendente, fino al drammatico, inaspettato finale.
Scritto nel 1962, Penelope alla guerra è il primo romanzo pubblicato da Oriana Fallaci. Si sente nello stile ancora acerbo, nel fraseggiare asciutto (sebbene comprensibile visto che la Fallaci era anzitutto una giornalista), nella storia che vola via veloce senza indugiare troppo su situazioni e scene.
Eppure il romanzo mostra anche tutta la bravura della Fallaci, che riesce sin da subito a catturarti e incuriosirti e che dimostra grandi capacità introspettive e acume. Formidabili, a mio avviso, le descrizioni, o meglio l'analisi che fa degli Stati Uniti. Di questo Paese, che all'epoca emanava sull'Italia una luce di ricchezza, prosperità e glamour, la Fallaci riesce già a cogliere la bellezza e le enormi contraddizioni, e, di più ancora, riesce a prevedere come la modernità americana influenzerà il futuro del Vecchio Continente, con una lungimiranza e una lucidità che fa sembrare impossibile sia stato scritto oltre cinquant'anni fa.
La storia di Giò, che nell'America trova quasi un alter ego naturale, è, in sintesi, la storia delle donne appena uscite dalla guerra, divise tra un passato "casalingo" e un futuro ricco di nuove opportunità, con tutti i compromessi e le difficoltà che questo avrebbe comportato. Forse per questo Giò è tanto moderna. Nel finale, sola nella sua casa, sembra rappresentare tutte noi, costrette a ingoiare lacrime per poter essere tutto ciò che vogliamo.

Penelope alla guerra, Oriana Fallaci, Bur Rizzoli

domenica 8 maggio 2016

Festa della mamma e Comunione

Questa sono io, ritratta in occasione della mia festa, la festa della mamma. E siccome è maggio, finisce che si festeggia approfittando della Comunione di una cuginetta, in una delle chiese principali della mia città, quella in cui sono cresciuta e che, anche se adesso vivo nel vicino paesello, non posso fare a meno di chiamare mia. 
La chiesa è stipata, 40 bambini con rispettive famiglie, più frotte di turisti. Si incontra un po' di tutto. Il futuro compagno di scuola, l'attuale compagna di danza, un amichetto delle arti marziali, cugini lontani, vicini del paesello. Non manca nessuno. E a fine cerimonia, i saluti sono di rito. L'amico degli amici, il parente dei parenti. Una zia, che zia non è, non tua almeno, ma per la proprietà transitiva della cuginanza tendi a considerare così.
"A, ma questa è tua figlia? Che amore. Ma guardala che carina, a chi somiglia? E sì io vedo una somiglianza. Come sei bella. Uh come sei elegante...E lui è il grande, che ometto, che bel bambino". Ieie nel frattempo si allontana. "Eh sì bello pure lui. Ma lei è un'altra cosa".
Ecco, se da grande mio figlio diventerà un serial killer di secondogenite di fratelli maschi, per favore non date la colpa a sua madre.
A proposito, auguri a tutte le mamme. E complimenti alle maestre della Lolla per questa divertente poesia. L'ho trovata anche molto vera: non c'è una frase che non abbia saputo collegare a me, o a qualche mamma di mia conoscenza.

Una mamma moderna
La mia mamma è tanto bella,
si prepara come una stella:
si tinge i capelli, si mette il trucco,
e il mio papà...rimane di stucco!

Pulisce la casa in continuazione,
con i prodotti in promozione,
tira i panni dalla lavatrice
e, se sono bianchi, è strafelice.

Prepara pranzetti prelibati
con i cibi surgelati.
Al supermercato riempie il carrello
di detersivi, bibite e girelle.

Fa la tassista per la palestra,
i compleanni e altre feste.
Guida la Panda o anche la Skoda
senza curarsi se è fuori moda.

Ha il computer e non lo usa:
non è portata...si sente confusa!
Usa tanto il telefonino,
anche per parlare con la vicina.

Conosce tutte le canzoni
di D'Alessio e di Baglioni,
di Renato Zero e di Pausini,
tutti suoi beniamini.

Io sono contento
che la mia mamma sia così
e pagherei per vederla ogni dì.
Vorrei vederla mattina e sera,
non per un giorno, per la vita intera.

Per coprirla di infinite carezze,
di tanti bacini e gentilezze,
per ringraziarla
per quel che ha fatto
per questo figlio un po' distratto

che non ha colto in tempo reale
d'avere...una mamma davvero speciale!


martedì 3 maggio 2016

Pulendo piselli

Sbucciando piselli arriva lei, pronta a mettere a disposizione anche le sue manine. E che fai, le dici di no? Dopo tutto quello che ti hanno insegnato sul metodo Montessori, la motricità fine e le attività di vita quotidiana?
Aprendo piselli può succedere che la nonna, vedendo mamma e figlia intente alla sgranatura, si commuova ricordando di quando anche lei, con sua mamma e sua sorella, passava il tempo in quel verde sgranellare.
Sgusciando piselli spieghi a tua figlia come fare e le ricordi di controllare che non ci siano vermi. E lei si diverte tanto. Finché non spuntano i vermi. E allora...si diverte anche di più.
"Questa è Lili, Lubi, Gigo" "Ieie guarda i vermini si abbracciano" "No Lili, non andare di là. Aspetta, ti ho costruito una casa con la buccia" "Ecco, vi metto un pisellino da mangiare" "No mamma, non buttare i vermini".
Pulendo piselli a un certo punto non si capisce più nulla, fra pallini verdi che volano per la cucina, semi bacati selezionati come buoni e semi integri dati in pasto ai vermini, ma mai pulizia della verdura fu più divertente. Speriamo solo che in questa confusione, Lili e Lubi non siano finiti nella zuppa.

lunedì 2 maggio 2016

Il sangue dei vinti

Non è stato facile portare a termine la lettura de Il sangue dei vinti, Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile. Quella sfilza di esecuzioni che ti si para davanti come un elenco senza fine, è un boccone duro da digerire. Non solo fucilazioni o impiccagioni punirono i fascisti, o presunti tali, all'indomani della Liberazione, ma miriadi di atrocità che spesso niente avevano a che fare con la vendetta per le angherie subite durante la dittatura mussoliniana né, tanto meno, con la voglia di giustizia.
E' risaputo che Giampaolo Pansa, nonostante la sua nota militanza a sinistra, abbia ricevuto molte accuse in seguito alla pubblicazione di questo libro. Una su tutte, quella di aver voluto fare del revisionismo, con storici titolati che l'hanno criticato per aver vestito panni che non gli competono. E tuttavia forse nessuno meglio di lui poteva affrontare questa ricerca, proprio perché non aveva interesse a fare del revisionismo. 
Nella sua analisi, che altro non è che un resoconto, parziale a suo dire, delle morti provocate dalla guerra civile seguita alla Liberazione, Pansa parte dal presupposto che in ogni guerra è normale che i vincitori si vendichino degli sconfitti, e i fascisti avevano molto da farsi perdonare, Ma si chiede anche se sia stato giusto, da parte dei vincitori, comportarsi come i fascisti e i nazisti, se avesse un senso "uccidere tante persone a guerra finita. Per lasciarsi alle spalle una scia di odio e di rancori che, dopo quasi sessant'anni, non si è ancora cancellata". Ed è proprio questa domanda a tormentare il lettore: qual è il punto in cui la giustizia lascia il posto alla vendetta? E ancora, da quali ceneri è sorta la democrazia che conosciamo?
Consumatesi spesso senza una condanna da parte di un tribunale legittimo, le esecuzioni post 25 aprile colpirono a volte nel mucchio, "bastava un sospetto, anche se non provato, per finire sottoterra". A Torino per esempio, toccò a un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche; a quattro innocenti, tutti scambiati per il colonnello fascista Cabras; a una madre colpevole di avere un figlio diciassettenne nella Brigata nera. Mogli, genitori, fidanzate, figli di persone che a vario titolo erano legate al fascismo, uomini e donne la cui unica colpa era quella di avere avuto la tessera del partito, fecero la stessa fine di aguzzini, comandanti e spie. Non c'era pietà per nessuno, nemmeno per i bambini. Così, nel genovese, i partigiani che cercavano un colonnello delle Gnr, in mancanza del reo, trascinarono a morte la moglie e i due figli di 14 e 8 anni.
A pagare il prezzo maggiore, come sempre, le donne, alle quali toccava una sorte più crudele "lo stupro, la violenza sadica, l'umiliazione terribile di essere data in pasto alla gente inferocita, con la testa rapata e dipinta di rosso".
In Romagna, poi, l'idea che la rivoluzione comunista fosse imminente, portò a una vera e propria lotta di classe. Non erano solo i fascisti a finire ammazzati, ma anche preti, proprietari terrieri, imprenditori. A volte uomini che avevano aiutato i partigiani, o ex partigiani stessi, che non erano d'accordo sui metodi adottati o che potevano rappresentare scomodi testimoni.
Ma perché, si chiede Pansa, i partiti, che tramite le formazioni partigiane avevano combattuto contro i nazifascisti, non seppero tenere a freno la voglia smodata di vendetta?
Sicuramente tedeschi e fascisti avevano mostrato una ferocia particolare che gridava giustizia, ma, aggiunge Pansa, c'era anche il fatto che molte formazioni partigiane erano poco strutturate, così che singoli gruppi poterono agire senza controllo, in barba a vertici locali della Resistenza incapaci di far rispettare l'ordine e la legalità. Tuttavia è anche vero che, con la vittoria alle porte, nelle formazioni partigiane entrò "il fiotto della razzamaglia: avventurieri, disertori, profittatori, gente che aveva qualcosa da far dimenticare. A questa corsa non si opposero i partiti. Nell'imminenza della spartizione del potere, ciascuno cercava titoli da gettar sulla bilancia, per affermare la preminenza della propria parte...Su suggerimento dall'alto, i comandanti accettarono chiunque si presentasse". Si ripropone quindi il quesito iniziale. A ricostruire l'Italia contribuirono certo molti uomini, e politici, di buona volontà, ma è anche vero che i partiti, pur di fare numero, non guardarono in faccia ai propri sostenitori, né alle loro intenzioni. Un viziaccio tutto italiano ancora presente nel Dna della nostra politica.

Il sangue dei vinti, Giampaolo Pansa, Pickwick

mercoledì 27 aprile 2016

Ritornare

Palazzoni alti, sporchi e anneriti come il viso di un minatore. Lavatrici sui balconi. Inferriate alle finestre. Strade brulicanti di una vita che hai quasi paura ti travolga. Auto che zigzagano nel traffico con la disinvoltura di chi non vede gli altri, ma solo il proprio obiettivo.
Un autobus che stranamente non si fa attendere e che ti accoglie spazioso. Odore di pelle, di unto, di gente. Strade e semafori. Palazzine liberty dalle facciate color pastello che sembrano appena dipinte. Fregi e telamoni candidi e bei cortili curati, con quel verde che oscilla dai muri di cinta e ti fa domandare come sia la vita là dietro, che quella nei palazzoni l'hai conosciuta fin troppo bene.
E poi il centro. Che nonostante il cielo grigio, il caos e tante altre brutte cose, ha una bellezza irriducibile, testimoniata da una folla variopinta che in veste di turista, ospite o abitante lo riempie di vita.
Un'umanità che ti rapisce, stupisce e respinge nello stesso tempo. Capelli rasta e viola, teste rasate e ipertricotiche, tatuaggi e piercing, abiti dark ed emo, sneakers, gonne lunghe, veli e shorts. Qui la normalità non è a senso unico e chi osa, in fondo sa di rischiare di confondersi nella folla. Tante nazionalità tutte insieme e soprattutto giovani. Perché per loro è più facile digerire l'impatto con questa città.
Una bolla di sapone che si staglia gigantesca tra l'obelisco e il cielo grigioazzurro del tramonto e ti ricorda come, pur con tutti i suoi difetti, questo luogo custodisca un fascino che si risveglia a ogni sanpietrino calpestato.
Manifesti e cartelloni elettorali che occhieggiano dai palazzoni e dagli autobus, per avvisarti che qui le regole si rispettano. Che c'è bisogno di decoro. E che i cittadini devono sentirsi liberi. Di girare la sera sicuri come di sgomberare un campo Rom. E vorresti sapere cosa ne pensano gli stranieri di questi slogan. Forse credono che sia uno scherzo, o forse che lì devono essere messi molto male. O tutte e due le cose.
Ho vissuto dieci anni a Roma e senza accorgermene sono passati dieci anni da quando non ci vivo più. Tornare fa sempre uno strano effetto, lì per lì ti sembra strano che la città sia andata avanti senza di te. Ma sai bene che non è vero, a Roma nessuno è indispensabile. Roma è un'amante bella e cinica, e non puoi fare altro che ammirarla nostalgico dal finestrino di un bus. E ringraziare per essere sfuggito alla sua malia. 

mercoledì 20 aprile 2016

Quando una mamma si ammala

Quando un papà si ammala, la vita in casa continua senza scossoni intorno a quello strano soprammobile che giace inerte sul divano. I bambini vanno a scuola adeguatamente vestiti, pettinati e con i denti profumati. Le attività pomeridiane si svolgono come da copione, sport, inglese, feste di compleanno, e i compiti vengono portati a termine senza particolari intoppi.
I pasti sono regolari, seguono una dieta varia e bilanciata e si compongono, come sempre, di un primo, un secondo, la frutta e, a cena, anche di un dolcetto.
La lavatrice segue la sua tabella di marcia, producendo bucati a ritmo regolare, in casa regna un moderato ordine interrotto, di tanto in tanto, da qualche sprazzo di infantile disordine. Insomma, tutto va come deve andare.
Quando la mamma si ammala...
Quando la mamma si ammala, intanto bisogna definire la malattia, che un semplice raffreddore o qualche linea di febbre da sola non giustificano la diagnosi (e la conseguente messa a riposo). Per godere del diritto alla malattia, una mamma deve avere almeno febbre, placche, ossa rotte e lacrimazione ininterrotta e incontrollabile che nemmeno quando ha visto al cinema "Nemicheamiche".
Quando una mamma si ammala, quindi, succede di tutto. I bambini si aggirano spettinati, con l'alito fetente e con abbigliamento inappropriato. Le felpe sono indossate al contrario e a ginnastica ci andrebbero con pantaloni con le tasche e cardigan se la madre, febbricitante, non urlasse dal suo letto di indossare una tuta. E qui partono le reazioni isteriche all'idea di doverla cercare, perché dove mai, in una casa, si potrà tenere una tuta?
Quando una mamma si ammala le attività pomeridiane vengono saltate a piè pari, e come presentarsi alle feste se nessuno si è ricordato di comprare un regalo? Non parliamo dei compiti. Pare sia impossibile sedersi a studiare senza la presenza di una signorina Rottermaier a ricordare i propri doveri.
I pasti si compongono spesso di piatti freddi, pane, prosciutto, formaggio, a meno che non intervengano i nonni materni con pietanze di rinforzo. La frutta più consumata è la banana e tutto questo nonostante frigo e freezer rigurgitino di cibarie.
La lavatrice entra in ferie e il cesto del bucato diventa obeso poiché il papà si è sempre rifiutato di imparare come fare una lavatrice, quasi che questo elettrodomestico abbia poteri devirilizzanti. Posso però assicurare che imparare a riavviare una caldaia, portare la macchina a fare il tagliando o montare i mobili Ikea, non rendono una donna una virago né le conferiscono autorevolezza in materia idraulica, automobilistica o tecnica. In ogni caso la mamma potrebbe sempre decidere di alzarsi e caricare una lavatrice, tutto ciò, però, a suo rischio e pericolo perché potrebbe perdere d'amblè il diritto alla malattia. O potrebbe impazzire vedendo il caos che regna sovrano in sua assenza.
Non bastano TUTTI i giocattoli disseminati per la casa, i minuscoli Lego sparsi ovunque, i pastelli buttati sulle coperte bianche, i libri ammucchiati su ogni superficie. In più si registrano strane anomalie: una spazzola per le scarpe tra i giochi dei bambini, un portacarte rovesciato sulla scrivania del computer, cinque sei giubbotti da bambino tirati fuori per un'uscita di pochi minuti.
Quando una mamma si ammala la testa le gira due volte. La prima è per la febbre, la seconda è perché tutto, intorno a lei, va al contrario.

Questo post non è ipotetico, supposto o paradossale, ma frutto di esperienze provate.

giovedì 31 marzo 2016

La lista

C'è quello che ha detto alla sua mamma che lei ha i lineamenti gentili, ma non è gentile, poiché alla sua festa, sulla torta di compleanno, c'era Kung Fu Panda. Che poi è lo stesso che, a domanda, rispose che sì, lei gli piaceva.
C'è quello che all'uscita della scuola richiama gioioso la sua attenzione, e ci rimane male se lei non lo nota.
C'è quello a cui piacciono le bambine con gli stivali (sic) e vedendola stival-munita le aveva chiesto di sederlesi accanto, venendo rifiutato. "Ma perché, poverino?", le avevo chiesto dispiaciuta, "Ma mamma, glieli ho fatti vedere - gli stivali, of course - glieli ho fatti toccare, poi basta" (e come darle torto?). Che poi è lo stesso che, alla fine dell'ora di inglese, voleva che andasse con lui a vedere la fontana.
C'è quello che le ha chiesto di darle un bacino, ma poi non è venuto alla sua festa di compleanno perché doveva giocare a calcio.
E c'è quello che era il suo fidanzatino, ma ora sono buoni amici, però alla festa non è mancato.
Il tempo passa e la lista di...come definirli, fidanzatini, simpatie, spasimanti?, della Lolla si allunga. Considerando la ragazza timida che sono stata, timorosa di svelare i propri sentimenti e capace di scoraggiare quelli altrui, per niente interessata a qualcosa che fosse meno che Amore, guardo  le sue conquiste con un misto di stupore e curiosità.
Ma la verità vera è che mi sento improvvisamente sbalzata in secondo piano: il mondo non è più mio, è suo. E nella mia testa risuonano le parole della canzone degli Abba, Slipping through my fingers. Possibile che il futuro sia così vicino? Non sono ancora pronta a sentirmi vecchia e preoccupata.


mercoledì 30 marzo 2016

Il socio

Come mai Mitchell Mc Deere, giovane e brillante laureando in legge ad Harvard, viene contattato da uno studio legale che fa di tutto pur di averlo tra i suoi avvocati? Come può Bendini, Lambert&Locke, piccolo e sconosciuto gruppo di associati con sede a Memphis specializzato in questioni fiscali, offrire stipendi così allettanti ai suoi membri? Perché nessun socio ha mai lasciato lo studio?
Sono queste le domande che pervadono il lettore dopo le prima pagine di Il socio, il famoso legal-thriller di John Grisham che ispirò l'omonimo film di Sidney Pollack.
Senza troppi preamboli, il libro entra subito nel vivo e ci porta a frequentare con Mitch lo studio Bendini, Lambert&Locke. Ci fa ammirare la luci notturne di Memphis, tra ponti e vecchi edifici adibiti un tempo al commercio del cotone, ci introduce in un ambiente selezionato dove non sei nessuno se non fatturi almeno quaranta ore a settimana e ci fa sentire svuotati e sovraccarichi di faldoni da studiare proprio come Mitch, che per il troppo lavoro vede in pericolo il suo matrimonio con Abby.
Non c'è che dire, anche se non conoscevo Grisham, (e sì, me ne rammarico), il suo stile, il suo modo di reggere i fili del racconto, mi sono piaciuti subito. E sebbene la quarta di copertina sveli in maniera inopportuna molte delle risposte alle domande precedenti (perché, dico, perché lo fate, signori editori?), il romanzo non perde mai il suo appeal.
Non appena ti sembra di aver capito cosa c'è sotto e la tensione scema, subito Grisham la riattiva. Così, tra colpi di scena e misteriosi maneggi, ci porta anche in giro per gli States e i Caraibi. I cambi di ambientazione, tutti funzionali alla trama, hanno il vantaggio di trasportare il lettore in paradisi naturali come le isole Cayman, facendoci sognare di bianche spiagge dall'acqua trasparente, o in luoghi turistici come Panama city beach che tanto ricorda la costiera romagnola con le sue file ininterrotte di alberghi, porticcioli e ombrelloni.
Unico neo, a mio avviso, il finale, che mi ha leggermente delusa. Resta la sensazione che Mitch, pur così abile e intelligente, non esca vincitore, almeno non del tutto. Si tratta, però, di una considerazione personale e forse la bravura di Grisham, e il fascino del romanzo, sta proprio in questa capacità di spiazzare il lettore fino alla fine.

Il socio, di John Grisham, Oscar Mondadori, trad. di Roberta Rambelli