martedì 17 novembre 2015

Lo spazio bianco

Mio figlio è nato prematuro. Per una placenta previa che a 30 settimane e 3 giorni ha dato forfait e costretto me a un cesareo d'urgenza e lui a quasi due mesi di Utin. Non è una cosa di cui parlo spesso, almeno adesso. Prima no, mi snocciolavo in testa tutta la storia per giustificare, a me e agli altri, il fatto che fosse più piccolo dei neonati della sua età, il fatto che tardasse a stare seduto e a camminare.
Poi a un certo punto non ci ho pensato più. E non solo perché le lacune erano state colmate, ma soprattutto perché non avevo più il diritto di rivangare questa storia.  Mio figlio ce l'ha fatta, tanti altri bimbi che entrano in Utin non ne escono più, come posso, allora, lamentarmi per non aver portato a termine la gravidanza?
Eppure quel ricordo di fili, allarmi e incubatrici ogni tanto fa capolino. Ogni volta che Ieie ha qualche difficoltà mi chiedo "E se, invece?". Ma sono domande che non avranno mai risposta.
Fu forse per questo, per quelle domande che rimarranno disattese, che pochi mesi dopo la nascita di Ieie andai a vedere al cinema Lo spazio bianco, il film di Francesca Comencini tratto dall'omonimo romanzo, che narra proprio la storia di una madre single alle prese con una gravidanza prematura e con i dubbi tipici di questa esperienza, "Il fatto è che mia figlia (...) stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene: per quaranta giorni è stato come nominare la stessa condizione".
Cercavo empatia, e cercavo risposte. Il film mi piacque, ma in verità a quel tarlo che mi mordeva dentro non seppe rispondere. E così che adesso, sedimentati i ricordi, ho deciso di leggere i libro di Valeria Parrella, per cercare quel qualcosa in più che mancava al film.
La storia è la stessa. Maria, una "primipara attempata" (definizione che mi sono beccata anch'io alla mia prima gravidanza a 31 anni) di 42 anni, sola, partorisce prematuramente la sua bimba, Irene, e da lì comincia il calvario dell'andirivieni al reparto di Terapia intensiva neonatale. la routine di lavaggi e camici sterili, il trovarsi fianco a fianco con altre madri i cui bimbi dormono accanto al proprio in attesa di remoti progressi. Maria viene risucchiata in una nuvola di nebbia da dove il mondo esterno, con i suoi impegni, gli amici, la routine, assume sfumature incerte, per non  apparire più come prima.
Mi sono buttata a capofitto nella lettura, stupita dalla bravura della Parrella che, non so se ci sia passata, ma ha dipinto alla perfezione come si sente una madre con un figlio prigioniero delle macchine e del reparto, un reparto a cui devi tutto, ma in cui non riesci a sentirti a casa.
Ho amato la prima parte del libro, ma a un certo punto mi sono sentita spiazzata, perché la storia vira e si arricchisce di altri elementi. Il passato della protagonista, la scuola serale dove lavora e soprattutto la città di Napoli. Ci sono poi dei passaggi che ho sentito estranei. L'invidia per i progressi degli altri bimbi ricoverati, l'insofferenza per le visite domenicali concesse ai parenti, no io tutto questo, nonostante la depressione che mi avvinghiava, non l'ho provato e non l'ho trovato nemmeno nelle altre madri. Anzi, ho visto molta più solidarietà là dentro che in altri posti.
Devo essere sincera, alla fine mi sono un po' persa e sentita tradita, probabilmente perché avevo delle aspettative che non sono state del tutto soddisfatte. Mi aspettavo un racconto solo sull'Utin, ma così non è. Lo spazio bianco è la storia di una vita che viene stravolta dalle circostanze, ma è anche una storia di Napoli, una Napoli ripresa nei suoi scorci più squallidi, ma inaspettatamente piena e luminosa di vita.
Alla fine, anche dalla lettura sono emersa con un senso di incompiutezza. Ancora mi mancava qualcosa che nemmeno il libro era riuscito a darmi. Un senso, una spiegazione a questa, alla mia vicenda. Ma forse la verità è che ho posto la più classica delle domande che affligge chi è colpito dal dolore, a chi dopotutto non è tenuto a darmi una risposta.
Perché a me? Perché a mio figlio?

Lo spazio bianco, Valeria Parrella, Einaudi

2 commenti:

  1. Però ne emerge il ritratto di un bel libro, un libro che ti ha fatta riflettere, ti ha fatto rivedere una tua esperienza con altri occhi, con un'altra prospettiva. Oltre, naturalmente, al sollievo di esserne uscita.

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    1. Sì, certo! La colpa non è del libro, ma mia, che gli ho affidato un compito che non gli competeva, probabilmente cercavo qualcosa di mio, di profondamente personale. Sulla qualità dell'opera niente da eccepire.

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