venerdì 4 dicembre 2020

Made in Italy? Il lato oscuro della moda

 
Circa un paio di anni fa, la trasmissione Report dedicò una puntata dal titolo Pulp fashion alle dinamiche, e storture, dell'industria della moda italiana. Proprio in coda al servizio un tale Giuseppe Iorio spiegava come il crescente fenomeno della delocalizzazione avesse lasciato senza lavoro tanti nostri bravi artigiani, depauperando il territorio di competenze che per anni erano state il fiore all'occhiello del made in Italy e che si sarebbero presto perse per sempre.
Giuseppe Iorio è un responsabile tecnico di produzione per diversi marchi del lusso, ovvero quello che viene incaricato di scovare nei posti più sperduti del pianeta fabbriche disposte a produrre i capi per i marchi del lusso a prezzi sempre più bassi, affinché le grandi griffe possano guadagnarci cifre scandalose. A furia di girare per luoghi desolati e desolanti, di visitare fabbriche simili a lager dove le parole igiene e sicurezza sono bandite, dopo aver scoperto il 49° stato europeo, la Transnistria, un'enclave della mafia russa dove si può produrre a condizioni veramente vantaggiose, Iorio ha deciso di dire basta e di raccontare cosa si nasconde dietro i miliardi delle grandi aziende della moda italiana, mettendo tutto nero su bianco in Made in Italy? Il lato oscuro della moda.
E' un piccolo libro, 132 pagine appena, che tutti, a mio avviso, dovrebbero leggere, a prescindere dall'interesse per l'abbigliamento e i "marchi", per comprendere come un settore che era la nostra punta di diamante viva ora di luce riflessa, avendo sacrificato qualità di materiali e lavorazione, ricerca e soprattutto dignità dei lavoratori, al dio denaro.
Il comparto della moda lusso fattura in Italia circa 90 miliardi l'anno, di questi 20 vanno ai dieci gruppi più grandi (Tod's, Armani, Max Mara per fare un esempio), che in Italia impiegano solo 15mila addetti quando potrebbero dare lavoro a 200mila persone. Invece si preferisce produrre all'estero, dove le competenze sono inferiori, i capi lavorati in capannoni fatiscenti e i lavoratori trattati come schiavi, non perché non si riescano a coprire i costi, ma perché si vuole aumentare a dismisura la fetta di guadagno. Un capo fatto in Transnistria costa 20 euro invece dei 35 pagati a un fornitore italiano. Se si pensa che in una boutique di via Condotti verrà rivenduto a centinaia, o migliaia, di euro ci si rende conto dell'inghippo.
Un industriale come Remo Ruffini, quello che ha comprato Moncler e per prima cosa ha sostituito alle costose e morbide piume di oche francesi quelle economiche cinesi che sforacchiano il tessuto e fuoriescono dall'imbottitura, ci spiega Iorio, dovrebbe rinunciare solo a 10 dei 250 milioni che guadagna ogni anno per dare lavoro a 6mila addetti in Italia. Invece preferisce produrre all'estero mentre alle convention degli industriali si dà da fare per sostenere che pur di evitare l'aumento dell'Iva è opportuno tagliare sulla sanità (sic!).
Sembra quindi che la moda italiana, invece di investire nella ricerca di materiali e tecniche, si premuri di ricercare i luoghi più poveri del pianeta per sfruttarli ben bene, salvo poi abbandonarli a se stessi quando i lavoratori cominciano ad alzare la testa. Questa rincorsa al taglio dei costi ha fatto terra bruciata nel mercato italiano, dove le aziende chiudono per assenza di commesse e le capacità artigianali affinate per anni, si perdono per mancanza di lavoro.
Quel che resta nella vetrina della boutique è un semplice miraggio. Un prodotto senza qualità, che di made in Italy ha ben poco, forse il disegno del modello e a volte neanche quello, ma che si può definire fatto in Italia grazie a leggi ad hoc votate da parlamentari amici, che vive del fascino che il marchio ha acquisito in passato e cerca di rianimare a suon di costosi spot. Come direbbe Iorio, pensiamo bene a cosa si nasconde veramente dietro i luccichii del faretto alogeno.
E se non avete soldi da buttare...buona passeggiata.

Made in Italy? Il lato oscuro della moda, Giuseppe Iorio, Castelvecchi

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

2 commenti:

  1. Un altro libro che finirà nella mia wish list. Diciamo che Report non è nuovo a scoop del genere, non ho ancora dimenticato un servizio di una decina di anni fa che metteva alla berlina marchi "storici" del made in Italy, come Prada.

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    1. Ciao Mariella, scusa per il ritardo. Sì il libro te lo straconsiglio, a me ha proprio aperto gli occhi e indotto a forme di acquisto più consapevoli.
      Il servizio di Report di cui parli devo averlo visto anche io perché ne ho un vago ricordo.

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