venerdì 29 marzo 2019

Scrivere è un mestiere pericoloso

Sorpresa da alcune recensioni di lettori delusi, sono stata in dubbio se affrontare il secondo capitolo delle avventure di Vani Sarca. Il personaggio di questa cinica gosthwriter dallo stile dark, con la battuta al vetriolo e la capacità di entrare nella testa delle persone al punto da scrivere e pensare come loro, era però così ben riuscito da parere brutto precluderle una chance.
Devo dire che sono stata felice di non essermi lasciata scoraggiare, sebbene alcune critiche non siano del tutto immotivate.
Ma andiamo con ordine.
Scrivere è un mestiere pericoloso prende avvio poche settimane dopo L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome. Vani, di nuovo single dopo la storia con l'affascinante quanto infido Riccardo, continua il suo lavoro alle Edizioni l'Erica e comincia la nuova avventura come collaboratrice della polizia. Chiamata a scrivere un libro che è a metà un ricettario e un memoriale, ecco che le sue due professioni si intrecciano: Irma Envrin, l'anziana cuoca che ha lavorato per anni dai Giay Marin, una famiglia di noti stilisti, e le cui memorie Vani è chiamata a raccogliere per conto di una famosa food blogger, le confessa di punto in bianco di essere l'artefice dell'avvelenamento di Adriano, il rampollo dei Giay Marin morto cinque anni prima. Peccato che in prigione per quello stesso delitto ci sia, reo confesso, Aldo, il fratello di Adriano.
A Vani tocca iniziare un lavoro sotto copertura: da una parte continua a raccogliere i ricordi di Irma, dall'altra, per conto del commissario Berganza, cerca indizi per venire a capo della vicenda.
Tra una bagna cauda e una torta di nocciole, di pari passo con la storia ritroviamo i comprimari della vita di Vani, la famiglia, i vicini di casa e i "colleghi", e mentre il suo rapporto con Berganza intraprende chine interessanti, scopriamo qualche particolare in più sullo sgualcito commissario. Fino al ritorno di Riccardo che apre le porte al prosieguo della storia...
Ora, non aspettatevi colpi di scena finali, misteri irrisolvibili e trame complicate. I libri della Basso non sono gialli tout court e la loro forza risiede più che altro nel raccontarci le vicende con gli occhi di Vani, quindi con un linguaggio tagliente, ma accattivante e in un personaggio border line nel quale ogni amante dei libri saprà ritrovare un po di sé. Ma, devo ammetterlo, sebbene come dice Berganza il crimine sia spesso molto banale, forse un guizzo di inventiva in più nello soluzione del caso non ci sarebbe stato male.
Questo il primo limite che ho notato. L'altra nota che mi sento di levare, riguarda alcuni punti del romanzo a mio parere superflui e che rischiano di  allentare la narrazione. Ok, Vani è brava nel capire le persone, ma forse alcuni dei suoi giochetti mentali sono del tutto gratuiti e ridondanti, così come la scena al veglione di Natale dai Giay Marin che personalmente ho trovato un po' forzata.
Detto questo, però, il mio giudizio resta positivo, proprio perché il personaggio di Vani ha un che di accattivante e il mondo costruito attorno a lei, le piccole trame che da lei e con lei prendono avvio, irretiscono il lettore al punto giusto.
Se dovessi dare un giudizio o, meglio, un consiglio, per il futuro suggerirei di cercare di inspessire la parte "gialla" del romanzo, di prediligere strutture narrative più complesse. Il racconto strizza l'occhio al linguaggio televisivo, al punto che sembra già pronto per essere trasposto in una serie tv. Se questo sia un bene o un male non sta a me dirlo, però, da lettrice mi sento di dare un consiglio: più Christie e meno fiction. E' la regola del delitto perfetto.

Scrivere è un mestiere pericoloso di Alice Basso, Garzanti

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

sabato 23 marzo 2019

Otto

La misura della tua crescita, veloce, emerge dai polsi e dalle caviglie che, per quanto io aggiorni il tuo guardaroba, fuoriescono sempre impertinenti da maniche e pantaloni, quasi a dire che non è tempo di fermarsi adesso.
Benché tu ci tenga a essere la piccola di casa, benché di bambole e pupazzi sono fatti ancora i tuoi giochi, sento con terrore e nostalgia il tempo che fugge e che anche tu, destinata a prolungare la mia presenza nel territorio dell'infanzia, ben presto spiccherai il volo.
In quella mattina lucente di marzo, quando vestita di rosa ho potuto stringerti tra le mie braccia, temevo saresti stata l'ultima e col naso che sfiorava il tuo piccolo collo, mi inebriavo di quel profumo di lattante, imprimendomi ogni dettaglio per saziare il mio cuore di mamma.
E' ancora tutto qui nella mia testa, come fosse quel giorno, anche se otto anni sono passati da allora e mai, come in quest'ultimo anno, tu sei cresciuta e cambiata, superando traguardi e attraversando nuovi territori.
Da un giorno all'altro, hai detto addio al dito in bocca. Hai deciso tu come e quando, e nonostante una prima sera di pianti mentre ti rilassavi davanti alla televisione, al pensiero che no, in quel momento non potevi succhiarti il dito, quella che sembrava un'impresa titanica è scivolata via con la velocità del sole che tramonta.
A scuola, a lezione di inglese, ho notato i tuoi progressi come se, da un momento all'altro, qualcosa dentro di te si fosse sbloccato.
Hai perso un po' della tua sfacciata sicurezza e acquistato qualche accenno di timidezza, ma alle tue compagne non neghi mai un abbraccio, con quegli slanci affettuosi che io non ho mai posseduto. Se non con te.
E poi ci sono quelli che si vogliono fidanzare con te e sebbene tu dica che non ti fidanzi con nessuno, non posso non notare la civetteria che aleggia nel tuo sguardo. Per ora ammetti, con imbarazzo, che Cedric Diggory ti piace più di Ron Weasley, ma verrà il tempo di altri segreti, e chissà se vorrai confidarceli.
Stai cambiando, piccola mia, e ti osservo e cerco di conservare ogni dettaglio della bambina che sei stata e che sei, anche se a volte mi sembra che il tempo si prenda gioco della mia memoria. E' difficile pensare che qualcosa è passato, è impossibile credere a quei dettagli dimenticati.
Qualche settimana fa una bambina, tua compagna a lezione di inglese, ti ha vista passeggiare, è scesa dalla macchina chiamando il tuo nome e correndoti incontro. Tu hai salutato, ma sei rimasta immobile, intimidita, incerta sul da farsi. Ho visto un po' di me, in te, e non mi è piaciuto, ma nonostante tutto le bambine ti chiamano e ti salutano allegre e questo mi consola.
Ho chiesto a Ieie come descriverebbe sua sorella, "E' sempre felice", mi ha risposto (e sappi che, nonostante i suoi dispetti e nonostante quello che tu gli fai, ha detto che non vorrebbe mai e poi mai essere figlio unico e che non farebbe a meno a di te neppure se ciò significasse avere più regali).
Ecco, il mio augurio per questi otto anni è che tu conservi, anche crescendo, questo lato del tuo carattere.
Che il sorriso ti sia sempre compagno, tanti auguri figlia mia.

venerdì 8 marzo 2019

Lettera a un bambino mai nato

Quando da bambina lo vedevo occhieggiare dalle vetrine delle librerie, mi suscitava sempre un po' di riluttanza. Non sapevo bene di cosa parlasse, però con quelle parole così strane per una bambina già nata (conoscevo il significato di aborto? Boh) sin da allora non mi lasciava indifferente.
Poi l'anno scorso, in occasione del 40° compleanno di una vecchia amica, la sua mamma ha realizzato un bel video che diceva, tra le altre cose, che una donna che aspetta un figlio senza essere sposata è vista il più delle volte come una irresponsabile. Nel migliore dei casi, come una stravagante, una provocatrice. O un'eroina. Mai come una mamma uguale alle altre.
Frasi dense di significato se si pensa che la mia amica è nata che la sua mamma aveva appena 16 anni. Ho così scoperto che provenivano da Lettera a un bambino mai nato ed ho capito che era arrivato il momento di affrontare questa lettura.
Quello che colpisce sin dalle prime pagine, è quanto questo libro parli un linguaggio ancestrale, comprensibile da tutte le donne: il linguaggio della maternità. Chiunque sia madre, o abbia sfiorato o agognato questa esperienza, si ritroverà nei pensieri della protagonista, una donna single lavoratrice di cui la Fallaci non dice di più, proprio perché ogni donna possa riconoscersi in lei. 
Consapevole sin dall'inizio di essere incinta, prima ancora che i medici possano esprimersi al riguardo, è colta da paura per un'esperienza che non aveva programmato e che vivrebbe in solitudine vista la fine della relazione amorosa. Eppure è una paura passeggera, perché subito, in questo monologo/dialogo col bambino che porta in grembo, la donna non può fare a meno di scegliere la vita.
Ho deciso per te: nascerai. L'ho deciso dopo averti visto in fotografia. Non era proprio la tua fotografia, evidente: era quella di un qualsiasi embrione di tre settimane [...] E, mentre la guardavo, la paura m'è passata.
Così, mentre le settimane si succedono, la gravidanza va avanti, ostacolata per diversi motivi dalle persone che la futura madre ha intorno e gravata anche da difficoltà di carattere naturale. Costretta a letto, la protagonista si dibatte tra dubbi, angosce, ripensamenti continui e si pone l'interrogativo cardine del libro: si può conciliare quell'istinto atavico che è la maternità, con il bisogno di affermare se stesse e vivere la propria vita?
Decisa a non annullarsi per un altro essere umano, riprende il suo lavoro. Immediatamente anche il suo umore rifiorisce e ricomincia a guardare con ottimismo e speranza alla nascita del figlio.
Ma sarà la natura a decidere il destino, tragico, di questa gravidanza, con un urlo che, anche questo, non potrà lasciare indifferente nessuna lettrice.
Devo ammettere che, a libro terminato, sono stata preda di sensazioni altalenanti: se la prima parte, con le sue riflessioni sull'essere madre, sull'attesa (bellissimi i capitoli in cui la donna si interroga se quel bambino sarà un maschio o una femmina) mi ha incantata, sono rimasta un po' perplessa dalla seconda, arrivando a dirmi che forse non ne ho colto la vera essenza. E se per anni pubblico e critica si sono interrogati se questo fosse un testo pro o contro l'aborto (nel 1975, anno di pubblicazione, l'Ivg non era ancora legale in Italia), è la stessa Fallaci a spiegare, in un'intervista di qualche anno dopo, che il libro non si occupa di questo "Io sono sempre dalla parte della vita [...]sono pronta ad andare anche in galera per difendere, per tutti, la libertà d'aborto nei casi necessari. Personalmente però non ho mai abortito; forse, chissà, non abortirei mai".
Né è lei, altro interrogativo che in molti si sono posti, la protagonista che narra in prima persona, sebbene l'idea del racconto nasca da un'esperienza personale.
Quindi, se devo dare un giudizio, penso che valga ancora la pena di leggere questo libro anche se, a mio avviso, risente molto del periodo storico in cui è stato concepito, ovvero quello dell'emancipazione femminile e di una nuova consapevolezza del ruolo delle donne. Oggi, epoca in cui ho conosciuto più donne affermate che lottano e hanno lottato per esaudire il desidero di diventare madri, che donne che si sono interrogate sull'opportunità di diventarlo, ci sarebbe bisogno di una nuova Lettera che sappia farsi portavoce dello spirito, e delle angosce, di questi tempi.

Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, Bur Rizzoli

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomaMadeMamma

giovedì 7 marzo 2019

Messaggio in bottiglia

Tutto cominciò con il giornalaio. Ogni giorno mio padre tornava a casa col quotidiano e una volta a settimana portava Grazia a mia madre. Anche io volevo qualcosa da leggere. Arrivarono i primi fumetti che, bimba della materna, sfogliavo contenta e compresa.
Ma le edicole, in un tempo in cui di pargoli ne nascevano a iosa, al contrario di oggi, proponevano poco materiale adatto ai bambini e anche io volevo un giornale al giorno, proprio come mio padre. Così mia madre gli suggerì di nascondere i fumetti vecchi e di ripropormeli "Tanto non sa leggere, non se ne accorge". Ecco, quel del tanto non capisce è una cosa che mi ha sempre irritato, da allora ho la fobia di essere presa per i fondelli. 
"Papà il giornalaio ti ha imbrogliato, ti ha venduto un fumetto che avevo già", fu la mia risposta al riproporsi dello stesso giornalino.
Perché io memorizzavo tutto, ogni singolo fumetto e ogni singola vignetta che mia madre mi leggeva. E guai a saltare una pagina tanto non se ne accorge. Io ricordavo tutto. Imparando le battute e i relativi disegni, imparai a leggere, proprio come anni dopo avrebbe fatto Ieie. Lettere e parole si ricomposero davanti ai miei occhi creando mondi di significati.
Arrivò la scuola, i libri di lettura delle elementari e poi le antologie delle medie che divennero i miei consiglieri. Sfogliando in autonomia quelle pagine, la mia attenzione si soffermò su alcuni brani, memorizzò autori e titoli. Specialmente alle elementari lessi e rilessi i testi che per i motivi più disparati mi avevano colpito.
Decisi che avrei letto i libri da cui erano tratti.
Qualche anno dopo cominciò quella cavalcata che ancora non è finita.
"Non fate sbrodeghezzi, non fate potacci" era troppo inconsueto per non saperne di più.
E Nuto, con "gli occhi forati da gatto" è forse una delle più belle descrizioni che abbia mai letto.
Parole e momenti si incisero nella mente per non uscirne più. A volta in maniera nitida, a volte lasciando tracce di cui non sono consapevole.
Alle medie conobbi un'autrice che inchiodò la mia attenzione con un "Io sono Jo" e salutando in maniera indimenticabile la sua amica Zazà.
E lessi del più bel bacio d'amore che ha il suono scrosciante di un Io io io.
E anche se la lista è sempre lì, so che alcuni titoli resteranno nomi allettanti senza un prosieguo. Libri che forse negli anni '80 erano famosi, ma dei quali anche la Rete ha perso ogni traccia. E che mi fanno chiedere che ne sarà dei best seller di oggi. I possibili sconosciuti di domani.
E poi c'è lui, quel brano dell'antologia delle medie rimasto nei miei ricordi per sommi capi, ma di cui conservo ancora il significato struggente.
C'era un protagonista, un uomo, e un accompagnatore. Sembravano essere tornati indietro nel tempo, in una riunione di famiglia, e il protagonista era preda di stupore e gioia nel rivedere i suoi familiari. Di gioia e dolore, davanti alla consapevolezza che alcune di quelle persone care presto o tardi sarebbero venute a mancare. E chiedeva di tornare nel presente perché no, non poteva sopportare di nuovo il dolore della perdita. Ecco allora il discorso dell'accompagnatore, la parte più intensa del brano, il cui senso è che la vita va vissuta e apprezzata al momento e non rimpianta, ma che solo pochi, i santi gli artisti, sono in grado di comprenderne il valore  e la bellezza.
Non ricordo da dove fosse tratto questo brano, né  chi fosse l'autore. Ricordo solo che era un testo teatrale e che tutti i nomi, dei personaggi quanto dello scrittore, mi risultassero non solo stranieri, ma di una lingua poco nota (russo, svedese, tedesco?).
L'antologia si chiamava Introduzione alla realtà, la casa editrice La Scuola, il volume credo fosse il terzo, ma non è più in mio possesso.
Da un po' di tempo quel brano torna prepotentemente nei miei pensieri e non so che darei per ricordare da quale opera è tratto.
Ecco, lancio questo messaggio in bottiglia a chiunque passi di qui. Se siete così fortunati da conoscere il testo, se l'avete letto, visto a teatro o se semplicemente, per qualche motivo, ne conoscete la trama e l'autore, vi prego, fatemelo sapere.
Sono anni che desidero leggerlo, anni che quelle parole mi ritornano in mente lasciandomi come Alice che sogna di raggiungere il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie.
Aiutatemi a mettere un'altra spunta alla lista. In cambio non posso promettervi niente se non la mia imperitura gratitudine e, se vi va, qualche consiglio librario.

venerdì 1 marzo 2019

Bianco letale

Sul finire de La via del male, avevamo lasciato il detective privato Cormoran Strike intento a demolire, involontariamente, le decorazioni del matrimonio della sua assistente Robin Ellacott. In Bianco letale la narrazione riprende dalle ore successive a quella scena, per poi condurci con un salto temporale a un anno dopo.
Cormoran e Robin lavorano ancora insieme, dopo l'arresto del serial killer di Shacklewell l'agenzia va a gonfie vele, sebbene non sia facile far convivere la popolarità acquisita con le esigenze di anonimato e basso profilo che un'attività investigativa richiederebbe.
Proprio mentre bisogna operare una cernita tra i casi in entrata e cercare qualche altro collaboratore, con la complicità tra Robin e Cormoran che pare essere andata a farsi benedire, compare in agenzia lo sfortunato Billy Knight, un giovane palesemente affetto da un disturbo mentale che racconta a Cormoran di aver assistito all'omicidio di una bambina avvenuto quasi venti anni prima, per poi scappare senza lasciare altri elementi validi.
Il delirio di una mente malata? Chissà, Cormoran  non fa in tempo a capirlo, che il ministro Jasper Chiswell richiede il suo aiuto per un caso di ricatto ad opera nientemeno che di Jimmy Knight.  No, non è una coincidenza,  Billy e Jimmy sono fratelli e, tra l'altro, da ragazzi hanno vissuto nella tenuta dell'Oxfordshire dei Chiswell dove, pare, sia avvenuto il presunto infanticidio. I due casi non sembrano collegati, ma Cormoran non crede alle coincidenze, tanto più che Chiswell si rifiuta di rivelare il contenuto del ricatto, ma vuole solo demolire i suoi avversari.
Già così ce ne sarebbe abbastanza per placare gli appetiti da giallo più insaziabili, ma l'indagine sarà anche più succosa quando, sul punto di perdere il caso, Cormoran e Robin si troveranno tra capo e collo anche un morto.
Lasciati i bassifondi di Londra che avevano fatto da sfondo al romanzo precedente, Robert Galbraith, aka J.K. Rowling, stavolta ci fa fare un salto di classe e ci conduce nell'Inghilterra "bene", quella delle corse dei cavalli e delle gallerie d'Arte con la maiuscola, delle tenute di campagna e dei club gentlemen only, dei quartieri inn come Ebury Street e Notthing Hill, quella, per intenderci, di Westminster.
Il viaggio, come sempre, è gradevolissimo e le 700 e passa pagine si consumano con inaudito piacere al punto che, a metà, già ti chiedi come farai a farne a meno. La mole di indizi è, se possibile, anche più consistente del solito e a ogni interrogatorio davanti a un immancabile pinta di birra, hamburger, bistecca o dim sum, il lettore cercherà di annotare mentalmente e fare ordine tra la marea di elementi a disposizione, ma non perdeteci troppo tempo, tanto i particolari utili saranno proprio quelli scartati senza riguardi.
Il colpevole, di cui Robin e Cormoran parlano già negli ultimi capitoli evitando di dirci chi sia (e procurandoci non pochi rosicchiamenti di unghie), non è sbalorditivo come nei precedenti capitoli. Stavolta bisognerà pescare nella rosa dei sospettati, demolendo quegli alibi a prima vista granitici e non c'è nemmeno quella goduria spettacolare che si prova al momento del disvelarsi dell'assassino. Non alla prima lettura, almeno, perché, come dicevo, gli elementi da riposizionare sono talmente tanti che solo a una seconda lettura di quel colloquio-confessione che a prima vista può sembrare incomprensibile, il lettore finalmente troverà l'ordine a cui aspirava e sentirà soddisfatti tutti i suoi sensi letteral-investigativi.
Se poi vi starete chiedendo cos'è il bianco letale, sappiate che dovrete macinare un po' di pagine prima di capirlo, ma che non ha a che fare con le cause della morte...non direttamente almeno.
Per quanto riguarda i sintomi che si presenteranno a fine libro, nostalgia dirompente per Robin&Corm, desiderio insaziabile di visitare Londra, sete di sangue, pardon di misteri da risolvere, posso aggiungere di non temere: i nostri torneranno perché, come ci lasciano intendere le loro vite private che scorrono di pari passo con le indagini, il bello è appena iniziato. E se non ce la fate ad attendere fino al prossimo volume, be' ci sono sempre i voli low cost per scoprire Londra sulle orme del nostro due investigativo.

Bianco letale, Robert Galbraith, Salani, traduzione di Valentina Daniele, Barbara Ronca, Laura Serra e Loredana Serratore

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma