In paese lo chiamavano cuore e genio. Genio per la sua bravura, o per meglio dire quell'estro che lo portò a rifiutare la media dell'8 datagli dagli insegnanti e con la quale avrebbe potuto evitare di sostenere gli esami di maturità. Troppo poco, secondo lui, meglio fare ricorso, dare gli esami e prendersi i meritati 10.
Cuore perché le ingiustizie non le sopportava. Studente universitario fuori sede, il padre non mandava i soldi a lui, così propenso a regalarli a chiunque ne avesse bisogno, ma a un conoscente incaricato di dargliene poco alla volta, secondo necessità. E dal profondo Sud, si aggirava a Roma senza cappotto. Non serviva, non sentiva freddo e quindi il suo lo aveva regalato a chi, invece, di freddo ne aveva.
Il povero padre, che con quel figlio doveva essersi scontrato più e più volte, non sapeva che pesci pigliare. Fa sempre come vuole lui, rispondeva a chi gliene chiedeva conto.
Gli studi da ingegnere, però, non li finì. Si dedicò al giornalismo, alla politica. E poi tornò nella sua terra dove iniziò a fare il segretario comunale. Sempre attento alle ingiustizie, però, che la povera gente faceva la fame anche, e soprattutto, nei paesi del Sud. Dava fastidio, pare, perché voleva controllare, metteva bocca su tutto, specie sulle requisizioni di grano, così odiose per lui, e allora i notabili del paese, il sindaco, fecero in modo di farlo richiamare dall'esercito.
Era il 1920 e il giovane sottotenente fu mandato in uno sperduto paesino lucano, Corleto Perticara, in quella zona oggi "benedetta" dalla scoperta di giacimenti di petrolio e ribattezzata Tempa Rossa.
In famiglia, poi, non se ne parlò più o, meglio, se ne parlò molto poco. Anche io la storia la conoscevo per sommi capi, quel poco che mi aveva raccontato mio padre che, pure, col nonno (il mio bisnonno) ha vissuto 14 anni.
Quel padre, di quel figlio, faticava a parlare, roso probabilmente dai sensi di colpa.
"Non vi maledico - pare dicesse un giorno ai generi intenti a litigare per questioni di eredità - perché ho maledetto mio figlio una volta, e ne ho avuto la morte".
Per il resto, dopo il 1920, la politica fu tenuta fuori da quella casa. A ogni elezione i cancelli venivano chiusi, segno che nessuno doveva venire a disturbare con appelli o promesse.
Quasi cent'anni di oblio e poi, due anni fa, una telefonata di un professore universitario, un antropologo lucano che, incuriosito da una lapide rinvenuta nel cimitero di Corleto Perticara, decide di fare una ricerca su un fatto di sangue del lontano luglio 1920.
Quello che all'inizio mio padre ha reputato uno scherzo, si è tramutato poi in un libro che di Luigi, il giovane sottotenente, ha restituito a noi, suoi lontani discendenti, un ritratto toccante destinato altrimenti a sbiadire del tutto.
In cerca di notizie non dico fresche, perché di testimoni che l'avessero conosciuto al paesello non ce n'erano più, ma quanto meno attendibili, abbiamo seguito le tracce che ancora portavano a lui. Dico abbiamo perché con l'aiuto di mia
zia, la memoria storica della famiglia, ho cercato di fornire qualche risposta alle domande posteci dallo studioso.
E' così che Luigi, oggi, non è più un nome su una targa o un ricordo sfumato di un gesto coraggioso. Luigi ha una storia che la sua famiglia può raccontare.
Arrivato a Corleto scopre, ironia della sorte, di essere stato mandato a fare ciò che più detestava: la requisizione dei cereali. Attività deprecabile, in un Sud dove per la povera gente il grano non era solo cibo, ma moneta di scambio.
Ma la divisa, e probabilmente un innato senso del dovere, lo inducono a portare avanti il suo compito. A raccolto ultimato, quando i corletani scoprono finalmente cosa è venuto a fare quel sottotenente straniero, scoppia la rivolta.
Non mi soffermerò sul dipanarsi degli eventi, ma sulla conclusione e in particolare su quegli elementi che coincidono fra il racconto delle fonti dell'epoca e quello circolato per anni in famiglia.
Si sacrificò per un collega che aveva moglie e figli, mi hanno sempre detto davanti alla lapide nel cimitero.
Scoppiata la rivolta, dopo che il popolo si infiamma ancor di più contro le divise a causa di due carabinieri impauriti che, non autorizzati, hanno fatto fuoco sulla folla uccidendo una bambina, Luigi e i carabinieri sono costretti alla fuga. E' ormai in salvo quando si accorge che il maresciallo dei carabinieri è rimasto indietro, braccato dalla folla che ha iniziato il pestaggio. Ha tre figlie quell'uomo, di cui una appena nata. Al contrario dei carabinieri giovani, rei per altro di aver ucciso una bambina, Luigi torna indietro e chiede che liberino il maresciallo, che prendano lui piuttosto. Getta le armi, come richiesto dai rivoltosi, che per tutta risposta si abbandonano a uno spietato linciaggio contro Luigi e contro il maresciallo.
Fa male leggere cosa gli hanno fatto, il racconto è terribile e lo sarebbe anche senza pensare che quel ragazzo appena trentenne era uno di famiglia, un figlio per il mio bisnonno, un fratello per mio nonno. Chissà, magari un padre di cugini che non sono mai nati.
Posso solo immaginare lo strazio del padre, talmente fiaccato dal dolore da non riuscire ad andare in prima persona a Corleto a recuperare la salma.
Quali e quanti strascichi quella morte ebbe sulla famiglia non so, né è facile stabilire come abbia influito sul corso degli eventi, magari fino a noi. Mio nonno, che pure non era il più grande dei fratelli, fu l'unico a rimanere nella casa del padre, al paesello, e a continuarne l'attività. Qualche rapporto familiare, comunque, si guastò. Quel sindaco che aveva allontanato Luigi dal paesello era un fratello della sua mamma. Uno zio. Di certo non immaginava di mandarlo a morire, ma è un fatto che con quel ramo le relazioni non furono più le stesse e che anche il paesello qualche responsabilità gliela riconobbe.
Gli anni, il silenzio, in famiglia e nel paese, hanno sbiadito il ricordo, allentato i rancori e così lo scorso 4 novembre il professor Alliegro, l'autore della ricerca, ha raccontato le sue scoperte nel corso della commemorazione dei caduti.
Ad ascoltare di Luigi c'erano tre dei suoi nipoti e qualcuno dei suoi pronipoti. Solo qualcuno perché la discendenza, aveva ben nove tra fratelli e sorelle, è ormai sparsa un po' dovunque.
Il racconto della vicenda è contenuto in
La lapide inquieta, un breve volume che essendo una ricerca universitaria circola solo tra addetti ai lavori.
Perché parlarne, allora? Perché vorrei che il ricordo di un giovane brillante quanto sfortunato non andasse perduto. Perché le buone azioni, ancorché inutili, vanno sempre portate ad esempio. Perché la memoria, se non consente sempre di riposizionare i tasselli nel giusto ordine, è di certo l'unico posto dove gli animi si placano e la riflessione porta frutto.
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Luigi, in piedi davanti alla porta della casa paterna, con i genitori, i fratelli e le sorelle |