venerdì 11 ottobre 2019

L'Idiota

Ho iniziato la lettura dell'Idiota con l'acquolina in bocca: il pasto sarebbe stato impegnativo, lo sapevo, perché ci sono cibi che richiedono palati allenati ai sapori più insoliti, ma il risultato finale mi avrebbe più che soddisfatto, almeno leggendo i pareri di chi questo romanzo lo aveva affrontato prima di me.
Dostoevskij non è facile, e questo è noto, può risultare a tratti pesante da mandare giù, ma la spesa vale sempre l'impresa e così anche quando le prime difficoltà mi hanno fatto vacillare ho tirato dritto, certa che ne sarei stata ripagata da quel pensiero denso e ricco che vale la scalata.
Devo ammettere, però, che sono arrivata alla fine delusa e stremata, trascinata solo dall'orgoglio e da una forza di volontà messa a dura prova. Da questa storia del principe Myškin, tornato in Russia dopo un periodo in Svizzera per curare la sua epilessia, da qui l'epiteto idiota che più di uno gli affibbia, non sono riuscita a cavare un senso.
Nel viaggio in treno che lo riporta a Pietroburgo, il principe fa la conoscenza del passionale e inquietante Rogožin che ha perso la testa per Nastas'ja Filippovna, giovane bella e perduta di cui il principe si innamora al solo vederne il ritratto.
Arrivato in città ramingo e senza un soldo, Myškin va a trovare il generale Epančin, che ha sposato una sua lontana parente. Sebbene non si siano mai visti prima, il principe col suo bel parlare e con l'animo buono, ispira subito simpatia alla generalessa e alle sue tre figlie che, nonostante ribadiscano sempre e comunque che si tratti di un idiota, decidono di accordargli la loro amicizia e protezione.
Sarà comunque un'eredità da un parente lontano e quasi sconosciuto (di quelle che succedono solo nei romanzi, ma mai nella vita vera), a dare stabilità economica al principe che, per una serie di eventi, cercherà di sposare Nastas'ja per salvarla dalla perdizione. Da qui la narrazione si sposta nel tempo e nello spazio, per portarci a Pavlovsk, una località di villeggiatura dove Myškin  ha affittato una dacia vicino agli Epančin. Sappiamo che Nastas'ja ha rifiutato di sposarlo, è andata da Rogožin, poi è tornata dal principe, poi di nuovo da Rogožin promettendo di sposarlo nonostante sia consapevole che quell'uomo sarà causa della sua rovina. Nel frattempo il principe si innamora di una delle figlie degli Epančin, la bella e capricciosa Aglaja e tra bigliettini e lettere, false richieste di risarcimento e tisici melodrammatici arriviamo, forse, al fidanzamento tra i due. Sembra quasi fatta, quando Aglaja decide per un chiarimento con Nastas'ja, che nel frattempo l'ha scongiurata di sposare il principe.
E qui, attenzione allo spoiler, succede la frittata, perché il principe, che pare ami entrambe, alla fine decide di salvare Nastas'ja sposandola. Aglaja fugge oltraggiata, Nastas'ja trionfa lieta sulla rivale e Rogožin sparisce, salvo tornare per il gran finale. Il matrimonio, poi, non ci sarà, e almeno questa sorpresa la risparmio a chi vorrà leggere il libro, e tutti i protagonisti, Aglaja compresa, saranno destinati a una conclusione che definire triste è un eufemismo.
Raccontato così, l'Idiota sembra quasi movimentato, ma in realtà la trama è lentissima, inframmezzata da episodi che non fanno che rallentarla e contribuire a confondere un lettore che già è sufficientemente confuso sul senso dell'intera storia. Ho chiuso le pagine continuando a lambiccarmi il cervello sul significato profondo della trama (perché quello superficiale già sfugge alla logica umana). Ovunque si vada a cercare, i paragoni tra il principe Myškin  e Cristo la fanno da padroni. Il principe è il paradigma dell'uomo buono, dell'uomo che porta dentro di sé lo splendore di una bellezza che "attira e respinge allo stesso tempo".
Neanche le recensioni e le critiche più autorevoli sono riuscite tuttavia a chiarirmi il senso del libro, né tanto meno a restituirgli, ai miei occhi, quella bellezza di cui tanti parlano. Un po' me ne dispiaccio, mi sembra di aver perso un'occasione, di non aver centrato il bersaglio, d'altro canto non so davvero di cosa accusarmi, se non di non arrivare a comprendere quello che invece per altri pare sia lampante.
Se tuttavia qualche lettore che ha letto e capito il libro volesse condividere con me il suo parere, ne sarò ben lieta. Magari darò così un senso a qualcosa che per ora, per me, "un senso non ce l'ha".

L'idiota, di Fëdor Dostoevskij, Newton Compton Editori, traduzione di Federigo Verdinois

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mercoledì 9 ottobre 2019

Bilancio della prima settimana di scuola, o giù di lì, secondo una madre (2)

Il secondo aspetto che mi è balzato agli occhi come madre di uno studente delle scuole medie riguarda l'annosa questione dei libri scolastici.
Ora, non mi soffermerò sull'argomento costi, sul quale penne più autorevoli della mia hanno versato fiumi d'inchiostro cercando, peraltro senza esito, di richiamare l'attenzione di chi di dovere. D'altronde finché il ministro dell'istruzione dibatterà di crocifissi nelle aule e assenze giustificate per manifestazioni climatiche, tutti temi che ti fanno approdare in prima pagina senza aprire i cordoni della borsa né studiare chissà quali strategie, di passi avanti se ne faranno pochi.
Ma torniamo ai libri, questi bei tomi che in un modo o nell'altro fanno dannare ragazzi e genitori. Tu, armato della tua bella lista, chiedi il testo di arte, o di tecnologia, o la grammatica italiana ed ecco la prima sorpresa. Ti viene consegnato non un volume o tuttalpiù due, ma quattro, cinque e pure sei.
Cominciamo con educazione fisica, o motoria o come si chiama adesso. Parliamo di tre libri, uno di teoria, uno di storia dello sport e un piccolo atlante di anatomia che hai visto mai ti venisse voglia di sfogliarlo tra una flessione e un addominale.
Proseguiamo con educazione musicale che consta di un libro per "capire la musica", un altro per "fare la musica" e il quaderno delle competenze (quest'ultimo un must per quasi tutte le materie, dacché la conoscenza non va più per nozioni, ma per le fantomatiche competenze: non sapere, ma saper fare).
Arte&immagine è a quota quattro. Il libro di storia dell'arte, quello su linguaggio visuale e tecniche, la guida allo studio sia mai non sapessi come fare e il museo attivo per lo sviluppo delle onnipresenti competenze
Saliamo di livello. Tecnologia, ben cinque tomi. Il manuale, il libro di sintesi per il ripasso e l'"inclusione", un manuale per il coding e la robotica e uno per il disegno e il progetto. Ah, e un volumetto con un bel malloppo di disegni tecnici da completare. Renzo Piano lèvate, una nuova generazione di progettisti è pronta a darti il cambio.
Concludiamo con italiano e la sua piramide di Cheope. Solo il manuale di lettura, poveretto, conta due libri (antologia ed epica), ma siccome ogni anno va ricomprato ci sarà tempo e modo di recuperare. Poi arriva la grammatica ovvero, un manuale, un testo per scrittura e abilità linguistiche, un altro di laboratorio (?) e due quadernetti, uno con le schede di lessico e l'altro con gli schemi di sintesi e ripasso. In tutto sette mattoni che spaccano la schiena.
Sì, perché se voi editori polverizzando l'offerta in volumi e volumetti vari pensavate di dare un senso ai vostri prezzi facendoci apprezzare la quantità di roba che ci stavate appioppando; o se invece volevate facilitare i ragazzi che così, di volta in volta, portano a scuola solo il fascicolo che serve, avete sbagliato due volte.
La prima perché molti di questi volumi ho il sospetto rimarranno intonsi a prender polvere sugli scaffali. Altro che affare vantaggioso.
La seconda perché in assenza di indicazione da parte degli insegnanti (e vi assicuro che a parte rare eccezioni, indicazioni non ne danno), gli alunni più ligi porteranno a scuola tutti i libri. Come fa mio figlio, scoperto con la soma di cinque volumi di grammatica e dell'antologia per una sola ora di italiano.
Di questo passo due sono le certezze: la necessità di dover ricomprare al più presto uno zaino e la scoliosi.
Al di là del peso della conoscenza, infine, l'amarezza del genitore moderno si materializza nel leggere alcune misteriose diciture sulle copertine dei libri di testo. Diciture già viste, che sperava fossero mero appannaggio della scuola primaria e delle quali invece, ahimè, pare proprio non si possa fare a meno. Le sopracitate (e sopravvalutate) competenze, ad esempio, i compiti di realtà (ogni quaderno degli esercizi degno di questo nome si fregia di cotanto contenuto, per farci interrogare, noi vecchi, sull'astrattezza dei compiti della nostra era), la didattica inclusiva che vorrei tanto sapere che d'è, visto che quando penso alla mia amica con figlio diversamente abile spesso e volentieri costretto a rimanere a casa per esplicita richiesta della preside e delle insegnanti, di inclusivo nella didattica non ci trovo un granché.
Ma bando alle ciance, dopo tutto l'importante è che i nostri ragazzi traggano il maggior profitto da questi tre anni che si aprono davanti a loro, perché, libri o non libri, come sempre da che mi ricordi, nel bene e nel male sono gli insegnanti che fanno differenza.
Infine, per tornare all'argomento del mio post precedente (e giuro che sarà l'ultimissima volta che parlo di ragazzini e telefoni perché la questione ha dato di stomaco persino alla sottoscritta), vorrei notare come i tentativi di noi genitori di arginare l'uso degli smartphone nei figli si scontri anche con le istituzioni, scuola in primis. Alle media di Ieie, come mi risulta in tante altre, gli alunni sono tenuti a consegnare il cellulare appena arrivati in classe, ma, mi spiegava un'amica docente di matematica, i ragazzi più seguiti dalle famiglie, il telefono a scuola non lo portano proprio. E così abbiamo fatto anche noi, consapevoli che tanto, essendo la scuola a 13 chilometri da casa, ci sarà sempre qualcuno a portare e prendere Ieie, sicché cui prodest il cellulare?
Ebbene, sono stata costretta a fare dietrofront davanti alle rimostranze di mio figlio, quando l'insegnate di Arte ha consentito l'uso del telefono in classe per ascoltare musica e trovare così l'ispirazione per disegnare. Basita e interdetta ho dovuto cedere a che lo portasse a scuola quando ha disegno, perché era l'unico sprovvisto.
E quindi niente, se anche la scuola legittima l'uso del telefono in classe, durante le lezioni, mi pare che noi genitori duri&puri non possiamo proprio più fare affidamento su nessuno. Però poi, per favore, non venite a lamentarvi con noi genitori.

venerdì 27 settembre 2019

Teresa Papavero e la maledizione di Strangolagalli


Iniziamo col dire che Strangolagalli esiste veramente, è un borgo di poco più di duemila anime della ciociaria che deve il suo nome alla conformazione geografica.
Teresa Papavero è una illustre abitante del paese non perché abbia fatto nulla di che, tutt'altro, ma perché il padre Giovan Battista è un famoso psichiatra specializzato in criminologia.
Teresa ci ha provato a seguire le orme paterne, studiando Psicologia e seguendo un master in criminologia, ma, come il padre aveva previsto, non è riuscita a combinare granché, racimolando lavori astrusi tra sexy shop e call center. E' per questo che, ormai quarantenne, decide di abbandonare Roma per la nativa Strangolagalli, lasciata 30 anni prima quando la madre decise misteriosamente di andar via e far perdere le sue tracce. Strangolagalli è il posto migliore dove ricominciare, magari aprendo un B&B nella vecchia casa paterna, e anche dove cercare un po' di tranquillità.
Peccato che a rovinare tutto ci si metta un appuntamento rimediato su Tinder che si conclude con il misterioso suicidio del partner della serata. Questo, e la scomparsa di una cliente del B&B, attirano a Strangolagalli un poliziotto rude e affascinante e un giornalista che Teresa conosce molto bene.
E' a quel punto che la tranquillità della protagonista, e anche quella degli insoliti personaggi che animano il borgo, va a farsi benedire ingoiandola in un bailamme di gaffe e situazioni paradossali.
Teresa Papavero e la maledizione di Strangolagalli è un romanzo leggero e piacevole e lo stile frizzante dell'autrice contribuisce a farlo andar giù con la facilità di uno spritz al tramonto sul mare, anche se arrivata alla conclusione, ci sono rimasta un po' male perché non tutti i nodi vengono sciolti. Il motivo, ho scoperto cercando in Rete, è che il libro è il primo di una trilogia ancora tutta da sfornare, una pratica che ultimamente va molto di moda (specie con i romanzi che uniscono humor e giallo) e che però comincia a mettere a dura prova la mia pazienza di lettrice.
Il secondo aspetto che salta in evidenza è che sembra scritto e pensato per una trasposizione televisiva, cosa che però a mio avviso lo limita, innescando passaggi un po' troppo frettolosi o non dando il giusto spazio alla caratterizzazione dei personaggi che a volte sono ridotti al rango di macchiette (per non parlare del poliziotto, del quale sappiamo solo che è un macho).
Il terzo appunto, be' non è proprio un appunto, quanto la constatazione che sempre più spesso i romanzi destinati a un pubblico femminile raccontano di quarantenni sole, deluse dal lavoro e dagli affetti, che grazie a un capovolgimento totale della loro vita riescono a dare una svolta alla loro esistenza, leitmotiv anche di questo titolo.
Il giudizio finale è comunque positivo, il libro si fa leggere e permette di trascorrere qualche ora in relax e divertimento e chissà, magari presto vedremo Teresa anche sul piccolo schermo, per cui, leggendolo, possiamo già provare a dare un volto ai vari personaggi.

Teresa Papavero e la maledizione di Strangolagalli di Chiara Moscardelli, Giunti

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma


martedì 24 settembre 2019

Bilancio della prima settimana di scuola, o giù di lì, secondo una madre (1)

Se per Ieie la prima settimana di scuola media non ha evidenziato granché di rilevante, vista dagli occhi di un genitore, o meglio di una madre, pare invece una fucina di scoperte e illuminazioni.
Sarà che alla fine abbiamo dovuto cedere sul cellulare e questo ha proiettato il figlio nel mistico universo delle chat di classe, sarà che comunque è un capitolo nuovo per lui come per me, fatto sta che non passa giorno che non provi stupore o una certa indignazione che mi fa tanto sentire un po' retrò, un po' superata.
Cominciamo con il telefono. A parte l'illuminante scoperta dell'applicazione di Google che consente di controllare e all'occorrenza bloccare lo smartphone del pargolo under 13, ricordandogli che dopo una certa ora l'uso del suddetto gli è vietato, la prima settimana col telefonino è andata meglio del previsto. Ieie ha sì il vizio di andare a controllare i messaggi, ma a un certo punto se ne stufa, al punto che spesso toglie la suoneria e ciao.
Ma veniamo a quello che ho scoperto osservando Ieie e la chat della sua nuova classe.
1) I ragazzini hanno l'irritante abitudine di intasare la chat di messaggi vocali. Una normale conversazione per decidere la qualunque, si sussegue a ritmo di decine di messaggini nei quali, come in un dialogo vis à vis, ognuno si inserisce dicendo la prima cosa che gli passa per la testa, intercalari ed esclamazioni comprese. Il tutto con i sottofondi più vari, dalla Tv al ruminare cibo fino agli sproloqui materni in secondo piano. Semmai qualcuno dica qualcosa di importante da ricordare, sarà impossibile rintracciare il messaggio in quel mare magnum, sempre che lo si sia ascoltato: Ieie per primo, se il vocale è lungo va avanti senza sentirlo perché, dice, ci vuole troppo tempo.
2) Una chat di undicenni è quanto di più vicino alla torre di Babele. Ognuno si inserisce con un argomento diverso mentre il precedente non è stato ancora esaurito, creando un guazzabuglio dal quale è arduo ricavare un senso. Ci sono poi i molestatori, ovvero quelli che intasano volontariamente la chat con la stessa immagine anche per 200 volte di seguito (visto con i miei occhi), rendendo la conversazione, già frammentaria, praticamente impossibile. La sensazione che se ne ricava è quella di una classe alla mercé di se stessa, che necessita di un insegnante a riportare ordine e un minimo di filo logico. Ma certo, mi si dirà, son ragazzini. Ma era proprio quello che dicevo io quando sostenevo che il telefono a questa età fosse superfluo.
3) I ragazzi usano la chat per riempire il tempo. Non sanno che fare? Messaggiano. La sera la mamma torna tardi dal lavoro (anche questo visto con i miei occhi)? Si sta a chattare finché non arriva. Ovviamente spesso e volentieri non hanno nulla da dire, il che rende l'ascolto dei 580 messaggi che uno si ritrova sconcertato, al mattino, mortalmente noioso.
La verità è che non hanno la più pallida idea di quello a cui serve un telefono. Per questo, quando lo scorso anno uno scolaro chiamò le forze dell'ordine nel corso del dirottamento del suo scuolabus, fu oggetto di così tanti elogi. A colpire non fu il fatto di aver avuto la freddezza di fare la chiamata, quanto che avesse capito a cosa servisse veramente un cellulare.
4) Le ragazzine sono peggio dei maschi. Perché questi sono ancora ingenui bamboccioni, mentre loro già si fanno le foto in pigiama, sul letto, con la bocca a papera, chiedendo quanto sono belle (visto anche questo). Fa un po' tristezza vedere come siamo scese in basso, che poi per carità, le foto in pigiama, o mentre ballavamo, ce le facevamo anche io e le mie amiche, per ridere, ma erano foto fatte col rullino e quindi ce n'era una copia sola e non doveva assolutamente essere mostrata ad altri, che altrimenti ci saremmo sotterrate per la vergogna.
C'è da dire che i maschi, al momento più attratti dalle notizie di calcio che da immagini femminili, non paiono dare il minimo riscontro a queste foto. Resta il fatto che chi le manda costruisce un'immagine di sé, vera o falsa che sia, che le rimarrà appiccicata anche in futuro.
5) I ragazzi non sanno cosa si può o non può fotografare. L'altro giorno ho dovuto bloccare Ieie che stava per immortalare la sorella mentre, in farmacia, le facevano i buchi alle orecchie. Nulla di sconveniente, per carità, ma non c'era necessità di registrare un momento comunque personale e che, tra l'altro, non meritava di essere divulgato. 
6) Cari genitori, attenti a quello che scrivono i nostri figli, perché come niente ci fanno fare una bella figuraccia. Come la mamma che ha sbagliato a cliccare la sezione al momento di ordinare i libri si testo su Internet, notizia che la figlia ha reso di pubblico dominio sulla chat, senza malizia, ma solo per chiedere le foto dei titoli corretti. Ora però tutti sanno del pasticcio combinato dalla signora che, magari, avrebbe fatto a meno di balzare agli onori della cronaca scolastica.
7) Nelle chat della classe i ragazzi si dividono in due categorie. Quelli che scrivono in continuazione e a tutte le ore e quelli che scrivono solo se hanno qualcosa da dire o da chiedere.
E da questa dicotomia, a mio avviso, ognuno può trarre le sue conclusioni.

Bilancio della prima settimana di scuola, o giù di lì, secondo un figlio

La prima settimana di quelle che noi adulti ci ostiniamo a chiamare scuole medie (ma anche per i figli pare questa la denominazione più comoda), è scivolata via con scioltezza, a scartamento ridotto, tra orario tagliato e libri assenti, e con un'aria decisamente festaiola.
Questi i commenti che sono riuscita a carpire a Ieie:
- il prof di inglese, che a suo parere ha intorno ai 60 anni, è troppo anziano per insegnare lingue perché sicuramente si sarà scordato come si parla inglese;
- la prof di matematica, alla quale credo abbiano dato l'ingrato compito di leggere il regolamento d'istituto, mette un po' di "ansietta" con tutto quell'elenco di casi e vicissitudini che rendono passibili di perdere l'anno;
- il prof di religione è davvero simpatico;
- la prof di italiano fa mettere un'insegna col nome sul banco,, stile conduttore del Tg, perché non si ricorda i nomi di tutti;
- la prof di spagnolo, alla sua prima apparizione, ha rampognato la classe perché non avevano ancora i libri, come se dipendesse dalla loro indolenza e non dal fatto che l'elenco delle sezioni sia uscito solo una settimana prima dell'inizio delle lezioni.
A parte questo non si registrano insoddisfazioni, turbamenti o altri picchi umorali degni di nota da parte del figlio.
Da parte sua, la Lolla pare tranquillamente avviata al quarto anno di elementari senza che ci siano state novità da segnalare. Solo il primo giorno abbiamo registrato qualche malumore causato dal secolare problema dei posti a sedere, fortunatamente rientrato senza bisogno di fare alcunché.
Per ora è tutto, anche se siamo solo all'inizio...

giovedì 19 settembre 2019

Nell'angolo

Non era riuscita ad andare durante le celebrazioni per il santo patrono, qualche settimana prima, e così approfittando del fatto che lo studio del suo medico di base fosse proprio là vicino, aveva deciso di fare una capatina in duomo, un caldo pomeriggio di settembre, per recitare una preghiera.
Sul sagrato della chiesa la prima sorpresa, un uomo elegante, con indosso una specie di livrea, che le spiega che per entrare in duomo sono 3€.
"Ma io volevo solo dire una preghiera" precisa e l'uomo, sebbene a mezza bocca, la autorizza a entrare.
Dentro ha appena il tempo di farsi il segno della croce, che di nuovo un altro addetto la blocca chiedendole il pedaggio dei 3€. E di nuovo, lei spiega che è lì per recitare una preghiera.
"Allora per favore vada lì, nell'angolo", si sente rispondere.
Un po' troppo per chi aveva bisogno di spiritualità. Si rifà il segno della croce. E va via.
Piazza Duomo durante un raduno Ferrari di alcuni anni fa
Da qualche tempo per entrare nelle chiese del centro storico di Lecce, si paga. Noi ce ne siamo accorti sabato scorso, quando per vedere Santa Croce ci siamo sentiti chiedere 8€ a testa. Eravamo in cinque e tutti quanti l'avevamo già visitata più volte. Abbiamo lasciato perdere.
Per carità, mantenere e preservare il patrimonio storico-artistico costa, e contribuire è un gesto di civiltà.
Già. Però non dovremmo dimenticarci che una chiesa non è un museo né un sito archeologico. Inutile lamentarsi che gli scranni sono vuoti se quelli che dovrebbero colmarli sono trattati in questo modo.
Parafrasando Dirty dancing, nessuno può mettere un credente nell'angolo, in chiesa, perché così non si fanno scappare solo i fedeli, ma si scaccia Dio stesso dalla sua casa. E la persona alla quale è successa questa storia non meritava certo un'accoglienza di questo tipo.

venerdì 13 settembre 2019

Km 123

Al Km 123 dell'Aurelia, una notte di gennaio, l'imprenditore romano Giulio Davoli finisce fuori strada speronato da un'auto pirata.
La sua amante Ester, ignara dell'accaduto, non ricevendo risposta agli Sms che gli ha inviato decide di chiamarlo a casa con una scusa, perché vuole avvertirlo che il marito potrebbe essere a conoscenza della loro tresca.
Al Km 123 un testimone rivela alla polizia che quello di Davoli non è stato un incidente, ma un atto premeditato.
Al Km 123 c'è un cantiere di proprietà di Giulio.
Al Km 123, qualche giorno dopo, si verifica un altro incidente stradale. Stavolta mortale.
Quando pochi mesi fa Mondadori decise di riprendere la collana dei gialli affidando il primo volume ad Andrea Camilleri, lo scrittore sottolineò quanto fosse contento di poter scrivere un giallo senza Montalbano. Nessuno immaginava che Km 123 sarebbe stato la sua ultima opera.
Si tratta di un racconto più che di un romanzo vero e proprio, che attraverso articoli di giornale, Sms, telefonate, verbali di polizia e dialoghi, ricostruisce la vicenda per condurre il lettore a una finale dove emerge il colpevole, ma non i dettagli degli eventi che vengono lasciati alla fantasia o alla capacità deduttiva del lettore.
Niente a che vedere con il tessuto narrativo di Montalbano che è di certo superiore, ma la penna di Camilleri si sente e resta comunque un esperimento narrativo piacevole e interessante.
Molto più bello, a mio avviso, il saggio riportato a fine libro, ovvero un intervento di Camilleri sul genere giallo tenuto nel 2003 all'Università Roma Tre. Oltre a essere un compendio denso di informazioni sulla letteratura gialla in Italia, è un'ulteriore dimostrazione della cultura e dell'intelligenza di Camilleri, ma soprattutto della sua bravura nel saperle diffondere con uno stile in grado di tenere alta l'attenzione dell'ascoltatore. Una delle doti che più mi mancherà di questo scrittore.

Km 123 di Andrea Camilleri, Mondadori

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

venerdì 30 agosto 2019

Il labirinto degli spiriti


Alicia Gris è una donna bellissima quanto pericolosa, se ne accorgono tutti al primo sguardo. Creatura delle tenebre, dal sorriso incantevole e terribile.
Dotata di sangue freddo e di abilità camaleontiche, è  la persona giusta per scoprire che fine ha fatto il ministro della Cultura Mauricio Valls. La polizia, che indagava su alcune minacce che lo riguardavano, ne ha perso le tracce e per questo si affida a Leandro e alla sua squadra di professionisti. E Leandro pensa subito ad Alicia, la sua agente migliore, che però accetta solo con la promessa che questo sarà l'ultimo incarico affidatole.
Affiancata da un poliziotto di lungo corso, il capitano Vargas, Alicia trova un libro nascosto a casa del ministro ed è convinta che quello sia la chiave del mistero. Si tratta di un volume semisconosciuto, scritto da un certo Victor Mataix, romanziere vittima, come tanti, delle ritorsioni e delle faide lasciate aperte dalla fine della guerra civile, scomparso nel carcere di Montjuic di cui Valls, nel 1939, era direttore.
Alicia, che ha un fiuto infallibile per trovare elementi che ad altri sfuggono, fa ritorno nella sua Barcellona trascinando un riluttante Vargas, convinta che è da lì che bisogna partire per scoprire chi ha minacciato e probabilmente catturato Mauricio Valls. E anche stavolta Alicia dimostrerà di avere ragione, sebbene non ci sia nessuno disposto ad ascoltarla e abbia forse trascurato qualche particolare.
Se il Prigioniero del cielo si può considerare quasi un racconto di transizione, Il labirinto degli spiriti che, proprio come un dedalo, raccoglie più fili del narrare che si intrecciano per giungere tutti al nucleo centrale, è la degna conclusione del ciclo del Cimitero dei libri dimenticati.
Avevamo lasciato Daniel e la sua famiglia con tanti dubbi da chiarire, stavolta il racconto riprende da una figura nuova, Alicia (anche se all'inizio del romanzo scopriamo com'è che lei e Fermìn sono collegati), che indaga però su un personaggio, Valls, che nel Prigioniero del cielo impersonava il ruolo del perfido antagonista.
Romanzo denso che si avviluppa proprio come gli antri tortuosi del Cimitero dei libri, Il labirinto degli spiriti non deluderà chi ha amato la famiglia Sempere e la filosofica logorrea di Fermìn, imbastendo il racconto di nuovi personaggi e storie tutti collegati ai tragici episodi della guerra civile, le cui sorti sono molto più complesse di quanto i libri di storia ci raccontino.
Il libro si legge con piacere fino al disvelamento del mistero (o dei misteri), ma sul finale Zafòn la mena un po' per le lunghe, ché capiamo che dopo quattro libri voglia salutare degnamente i suoi personaggi, ma se pure l'avesse fatto utilizzando qualche capitolo in meno secondo me andava bene lo stesso (a me ha fatto un po' l'effetto di Guerra e pace che, proprio quando tutti i personaggi hanno trovato la loro degna conclusione, Tolstoj ci attacca un pippone conclusivo sul senso della Storia).
Resta, c'è da dire, un po' di amaro in bocca per la sorte di alcuni protagonisti, ai quali neanche la ritrovata libertà può dare la salvezza, una certa perplessità sulla storia della madre di Daniel (che forse se non lo sapevamo eravamo più felici) e l'intima convinzione che alla fine i cattivi se la cavino con poco.
Ma forse questo è il vero succo della storia, che ogni guerra si lascia uno strascico di orrori che non permette a nessuno di sentirsi in salvo. E che siccome in guerra la storia la fanno i vincitori, per le vittime, dirette o colpite di striscio, non c'è possibilità di riscatto.

Il labirinto degli spiriti di Carlos Ruiz Zafòn, Mondadori, traduzione di Bruno Arpaia

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

mercoledì 28 agosto 2019

C'è turismo e turismo


Da quando il turismo di massa ha scoperto il Salento, assistiamo a un'invasione del paesino con una densità e una consistenza sconosciute in passato. Non che i turisti mancassero, solo arrivavano in forme e modi diversi e più contenuti.
Non posso affermare che la situazione sia analoga in tutti i paesi della provincia (anche se le cronache che giungono sono spesso poco lusinghiere), ma per quello che vediamo sciamare sotto i nostri occhi, il boom di questi anni si compone spesso (ma non sempre, per fortuna) di persone che probabilmente non hanno mai messo il naso fuori casa, o forse la mamma e papà non hanno spiegato loro come ci si comporta con gli estranei, fatto sta che si tratta di turisti di bassa, bassissima levatura e ancor più infima educazione.
Cominciamo col dire che qui prevale la cosiddetta formula mordi e fuggi: essendoci uno sproposito di noleggio barche e tour della costa, arrivano per fare un'escursione delle grotte e una nuotata, tuttalpiù una passeggiata sul lungomare, e poi vanno via. Ora, il turista di questa tipologia, a quanto pare, ha un unico obiettivo: non spendere un euro in più oltre al prezzo del biglietto del tour. Il che, capirete, ha diversi corollari, tutti empiricamente dimostrati da anni di osservazioni, che andrò adesso ad elencare.
1) Il turista di cui sopra mangia spesso sulle panchine del lungomare. Potete trovarlo di sera, ancora bagnato e in costume, che fagocita un panino mentre i figli si rincorrono urlanti facendo cadere pezzi di pane per ogni dove. I villeggianti li osserveranno basiti dalle finestre aperte, ma loro non faranno una piega, tuttalpiù si faranno una canna. Oppure, se siete fortunati, li troverete all'ora di pranzo mentre scaricano dalla station wagon un tavolino pieghevole e qualche sedia da disporre sul lungomare per gustare lo stanato di pasta al forno.
2) Il turista di cui sopra, sempre lui, cerca in tutti i modi di non pagare neppure il parcheggio. Sarà per questo che, se gli capita di trovarlo aperto, piazzerà la macchina nel cortile di casa vostra e sparirà, sprezzante del pericolo, per tre quattro ore a farsi il bagno. Ovviamente non l'avrà fatto apposta, è che, vi spiegherà quando alle tre del pomeriggio suonerà al vostro campanello chiedendo di farlo uscire, mica aveva notato che c'era una sbarra.
3) Il turista eccetera eccetera non conosce il significato di proprietà privata per cui, oltre a parcheggiare l'auto nei cortili di chiunque gli capiti sotto tiro, se trova una porta di casa aperta, o persino socchiusa, entra senza problemi chiedendo se la casa sia in affitto o dichiarando di averla scambiata per un locale aperto al pubblico. Non si farà remore a cambiarsi nel cortile di casa vostra (sempre quello), o a sostare lì nottetempo per chiacchierare ad alta voce e lasciare un cadeau di bottiglie vuote.
4) E qui veniamo alla perla delle perle. Il turista mordi e fuggi, quel disgraziato, manco i soldi di un caffé per usufruire del bagno del bar è disposto a pagare. Se proprio gli scappa un bisogno corporale, vedendo che il portone di casa vostra, che si apre per giunta su un cortile privato (sì sempre lo stesso!), è sufficientemente appartato e lontano da sguardi indiscreti, penserà sia meglio farvela sulla soglia di casa. Però, siccome la mamma e il papà gli hanno almeno insegnato a pulirsi, per regalo vi lascerà anche il fazzolettino sporco. Il che mi fa pensare che forse sono io la stupida che, ogni volta che siamo fuori e i miei bimbi hanno bisogno del bagno, pago una consumazione al bar. A saperlo che c'erano questi metodi alternativi...
E invece no, perché se c'è una cosa che ho imparato viaggiando, è il rispetto per il posto in cui mi trovo, perché quando sei a casa d'altri, devi trattarla anche meglio della tua. E rispettarne norme, usi e costumi.
Prima di uscire di casa, bisognerebbe introitare queste poche, semplici regole.
Altrimenti fatevi e fateci un piacere, statevene a casa vostra.

P. S.
Per la redazione di questo post, i cui esempi sono tratti da fatti realmente accaduti, nessun turista è stato maltrattato, semmai è il turista che ci ha maltrattato. 

venerdì 23 agosto 2019

Il prigioniero del cielo

A poco più di un anno dalla fine de L'ombra del vento, ritroviamo Daniel Sempere nella libreria di famiglia, sempre coadiuvato dal fedele Fermìn. Sposato con Bea e padre di un figlio, la sua vita sembra incanalata lungo un binario tranquillo quando due eventi lo porteranno nuovamente a percorrere le strade di Barcellona in cerca di risposte e di indizi.
Il primo campanello d'allarme arriva da una lettera con cui l'ex fidanzato di Bea cerca di riallacciare un relazione con la donna, lettera che Daniel trova per puro caso e che lo lascia nel dubbio sulle intenzioni della moglie; la seconda minaccia ha le fattezze di un brutto ceffo che acquista un romanzo nella libreria Sempere con la richiesta di consegnarlo a Fermìn, con tanto di misteriosa dedica.
Da questo episodio scaturirà un avventuroso flashback, con cui Fermìn che, per dirla alla Montalbano, sul suo passato aveva raccontato solo una mezza messa, ci porterà nientemeno che nella fortezza del Montjuic negli anni della guerra civile. Il racconto della prigionia di Fermìn è in realtà il filo che riannoda tutti e quattro i volumi della serie del Cimitero dei libri dimenticati, perché proprio in quel carcere Fermìn, anni prima, aveva incontrato David Martìn, il protagonista de Il gioco dell'angelo, e sempre da lì era stato gettato il seme della sua futura amicizia con Daniel.
Di più non si può raccontare, perché se L'ombra del vento aveva le fattezze di un romanzo concluso in cui ogni personaggio trovava un degno finale (e addirittura venivano anticipati fatti che sarebbero stati sviluppati nei libri successivi), Il prigioniero del cielo, pur risolvendo i due misteri di cui sopra, sembra più un racconto che getta un ponte verso l'ultimo capitolo della serie, aprendo molti interrogativi e lasciando intendere che ogni personaggio, anche quelli secondari, ha una sua storia che da un momento all'altro potrebbe balzare in primo piano.
Rispetto a L'ombra del vento, Il prigioniero del cielo è sicuramente meno "gotico" e anche l'elemento del mistero è più annacquato, non fosse altro perché la storia di Fermìn già sappiamo come andrà a finire (ve l'ho detto, L'ombra del vento anticipava tanti dettagli sul futuro dei nostri protagonisti). Qui è la componente avventurosa a farla da padrona, e in effetti i rimandi al Conte di Montecristo sono più che azzeccati, ma non solo. Man mano che ci si addentra nella storia, che i fatti apparentemente disgiunti appaiono collegati e Zafòn getta semi di interrogativi pronti a sbocciare da un momento all'altro, il lettore intuisce che il terreno è pronto per qualcosa di più grande, per un'altra indagine come quella su Carax, ma stavolta definitiva. E' Il labirinto degli spiriti, il capitolo finale che si prospetta foriero più che di risposte, di colpi di scena.
Anche su aspetti su cui, fino a questo momento, il lettore non ha prestato granché attenzione.

Il prigioniero del cielo di Carlos Ruiz Zafòn, Mondadori, traduzione di Bruno Arpaia

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma

martedì 20 agosto 2019

Il giro di boa

Il giro di boa dell'estate si misura con luci ed ombre, col caldo e col fresco.
Il giro di boa dell'estate è il lungomare che fino a una settimana prima alle sette di sera era impraticabile per il sole e l'afa e che adesso alle sette e mezza è quasi al buio.
Il giro di boa dell'estate è l'ombra in giardino che fa un percorso più breve e arriva in anticipo.
Il giro di boa dell'estate sono i teli mare lasciati ad asciugare sulla ringhiera, ancora umidi a fine giornata.
Il giro di boa dell'estate è il sole che si avvicina alla superficie del mare, per preparare i ricami luminosi di settembre.
Il giro di boa dell'estate sono i colori conquistati dai miei bambini: la pelle imbrunita dal sole, i capelli dalle cangianti sfumature platinate.
Il giro di boa dell'estate è già arrivato.


mercoledì 14 agosto 2019

On parle pas francais?

Un pomeriggio come tanti al paesino, ora del tramonto. I bambini giocano sulla spianata di cemento, i maschi a calcio, le femmine sulle giostre.
Io e la mia amica sostiamo là davanti con i rispettivi cani al guinzaglio.
Si avvicina una ragazza, non avrà nemmeno 20 anni, e, indicando la cagnolina della mia amica, le rivolge una domanda.
"Come?" risponde lei.
Di nuovo, la ragazza chiede in una lingua che nessuna di noi afferra.
"Scusa, non ho capito" dice la mia amica.
"On parle pas francais?" ci chiede, e stavolta capiamo.
"No" diciamo in coro, gentile lei, incredula io.
La ragazza ci osserva perplessa, il suo stupore che si riflette su di noi e le torna amplificato per due.
"Ah" dice e va via. 
E in quei pochi secondi di silenzio imbarazzato una vocina perfida che ogni tanto aleggia nella mia mente, ma alla quale tendo a non dare ascolto, mi sussurra "But we can speak english if you want!".
Ma è solo un sussurro che come sempre rimarrà inascoltato. Anche se a dirla, quella frase, secondo me sarebbe stato divertente.

lunedì 12 agosto 2019

Call center

Ed ecco un altro numero che si aggiunge alla lista nera. No, non è una carta dei tarocchi, ma una funzione salvavita del mio cellulare che da un mese a questa parte, da quando ogni giorno vengo subissata da telefonate dei call center, mi permette di bloccare i numeri (e le chiamate) indesiderate.
Che poi mi chiedo perché continuino a insistere, ormai non rispondo neanche più. Cerco il numero su Internet e appurato che si tratta di un call center lo blocco subito.
Ma loro continuano imperterriti per tre volte al giorno o più, nonostante la chiamata venga bloccata sul nascere.
E' un mercato ben strano quello dei call center. In un'economia che non tira, mi chiedo quanto si possa pagare una persona per continuare a fare telefonate infruttuose. Forse non viene pagata affatto e allora c'è da chiedersi perché accettare un compito così ingrato. Che io,  incapace di essere scortese, quelle poche volte che rispondo ingannata da un numero mobile, ormai mi diverto a precedere le loro offerte e a stroncarle sul nascere.
Come con la solita storia che mi chiamano per conto del mio operatore telefonico per avvertirmi dell'aumento in bolletta dovuto alla fine della promozione. All'ultimo che ha provato  rifilarmi questa truffa, perché di truffa si tratta, non l'ho fatto neanche parlare e gli ho detto subito che non avendo nessuna promozione attiva, non mi potevano togliere nulla. Il tipo si è inalberato, "Come non ha nessuna promozione?" diceva indignato (lui!), però dopo mi ha chiesto "Ma lei ce l'ha la linea fissa?". Forse anziché zittirlo avrei dovuto spiegargli che era il quindicesimo operatore che in quattro mesi mi propinava questa storia.
Che poi mi chiedo com'è che ci finiamo in questo girone dantesco dei call center. Che giri hanno fatto i nostri numeri per finire periodicamente in questa folle lotteria dove vinciamo sempre e comunque valanghe di telefonate indesiderate?
E' lecito tormentare la gente, spingerla in tutti i modi, e quando dico tutti intendo specialmente quelli truffaldini, a cambiare operatore telefonico, gestore di luce e gas, attivare un abbonamento Tv,  senza che abbiano mai manifestato interesse a farlo?
Per non parlare di quelli che parlando un italiano stentato su una linea che frigge come un uovo al tegamino, per prima cosa, nel presentarsi, si premurano di dirti che chiamano dell'Italia. Ma che credibilità hai, dico io? Come pensi che io possa fidarmi della tua offerta di trading on line? Che, insomma, se proprio avessi del denaro da investire, non è che lo affiderei al primo sconosciuto che mi chiama. Eppure, incredibile ma vero, per quanto siano falsi come una banconota da un euro, son riusciti a truffare tante persone. Sarà anche perché quando dici che non sei interessato cominciano a farti sentire uno sciocco che non capisce niente.
Mi chiedo spesso se questo sia un male solo italiano o se il tormento quotidiano dei call center sia merce comune anche all'estero. Perché a pensarci bene, un Paese dove sono accettate forme di mercato di questo tipo, è un Paese malato, senza regole e senza istituzioni capaci.
E allora poi ti spieghi perché uno vada a lavorare in un call center.

martedì 30 luglio 2019

All'ufficio postale

All'ufficio postale ci sono solo due addetti agli sportelli.
Il primo, occhiali quadrati e capelli grigi con un taglio che una mia amica definirebbe da abbonato, gestisce praticamente tutto: raccomandate, pacchi, pagamenti. Anche la porta che separa la sala per il pubblico e il backoffice è roba sua. Di tanto in tanto (molto spesso) quando qualcosa o qualcuno deve passare, si alza, aziona la prima porta e, alla chiusura, aziona la seconda. Lentamente. Poi ritorna al suo posto. A continuare a servire il cliente.
Intanto il collega è ostaggio di tre donne e un uomo il quale, forse in un tentativo di mediazione, spiega che la ragazza "è registrata alla Comune di Isère, perché è nata lì, alla Comune di Isère".
Molta gente entra, prende il biglietto, confronta il numero con quello servito e desiste.
Lentamente (che lì velocemente sarebbe un controsenso) una sensazione di déjà-vu mi assale.
Una donna con un pacco con su scritto Tim entra, chiede se come al solito c'è un impiegato addetto solo ai pacchi e sentendo che no, deve fare tutta la fila rimane perplessa. "E' come a dicembre" commenta una sua conoscente, evidentemente sottolineando analogie cabalistiche che si verificano in tempo di vacanze.
La donna col pacco desiste.
Dal backoffice, dove il personale pullula più che al front office, una guardia giurata esce nella sala. Il solito impiegato lascia il suo lavoro, apre la prima porta, poi la seconda. La guardia giurata salta la fila e dà all'impiegato un bollettino, paga, poi ritorna nel retro. Apri la prima porta, apri la seconda porta.
I quattro della Comune sono ancora lì.
Una signora ha un pacco voluminoso da spedire. Apriti cielo (e apriti porta). Informazione sui costi, pesa di qua, conta di là, che manco le valigie al banco della Rayanair.
Una signora addetta ai finanziamenti passa nel retro. Apri la prima porta, apri la seconda porta. La signora esce. Apri, riapri.
Sempre di più tutto questo mi ricorda qualcosa.
Finalmente il secondo impiegato si libera. Ma non chiama nessun numero.
Di nuovo l'addetta ai finanziamenti deve andare nel retro. Entra. Poi esce.
Chiamano il 42, tra due numeri tocca a me. Che bello, il 42 non c'è, ma, aspetta, l'impiegato invita allo sportello una signora arrivata da poco che chiedeva se per la sua operazione ci fosse da fare tutta la fila...adesso ho capito dove mi trovo.
E poi, ecco il 44. L'impiegato mi sorride, mi dice qualcosa sul perché di tanta attesa, annuisco senza capire una parola, che tra il vocio e i doppi vetri è impresa ardua. E poi diciamocelo, a questo punto mi interessa solo pagare e andar via.
Il castello di Ussè che ha ispirato la favola della Bella addormentata
Ieri mattina sono andata a pagare alcune bollette ché, da quando è arrivata l'estate, al paesello il postino arriva a settimane alterne e così ne abbiamo trovate tre tutte assieme, come i pacchi sotto l'albero la mattina di Natale.
Siccome nel frattempo siamo al paesino, ho pensato di usufruire dell'ufficio postale del comune vicino, che è un po' più grande e hai visto mai che ci si sbriga prima, ma evidentemente la mareggiata di scirocco ha ispirato lo stesso pensiero alle 14 persone davanti a me e alle altrettante arrivate subito dopo.
Tutti i paesi di questo territorio sono paesi in cui, pur essendoci Internet, Amazon (l'ufficio postale era zeppo di pacchi con il sorriso) e turisti a profusione, qualcosa è rimasto bloccato, fermo nel tempo. Sono una versione del regno della Bella addormentata ambientato nella Gagliano di Cristo si è fermati a Eboli.
E comunque non era il libro di Carlo Levi quello a cui l'attesa mi ha fatto pensare. Il déjà-vu è molto più prosaico. Un'ora e passa di fila allo sportello della posta e mi sembra che il bradipo della motorizzazione di Zootropolis sia lì davanti a me.

giovedì 25 luglio 2019

Crescere

Un amico fraterno, un cugino, che da un giorno all'altro non lo cerca più e, quando si vedono, non riesce ad andare oltre a un saluto svogliato a sguardo spento. Che io lo so che non è colpa sua, ma fa male lo stesso quando, a dieci anni, vedi qualcuno che ti era così vicino allontanarsi all'improvviso senza motivo.
I compagni che, da quando hanno il telefonino, "sono più cattivi" e sottolineano, non volendo farlo stare male ma riuscendoci ugualmente, che noi, i suoi genitori, lo trattiamo come un bambino di tre anni perché non lo mandiamo in giro da solo e lo controlliamo. E probabilmente perché adesso è l'unico senza cellulare.
Il compagno del cuore che l'anno prossimo non sarà più in classe con lui, perché Ieie cambierà scuola e paese, e sebbene viva a pochi metri da noi, per loro è come un addio definitivo sul ponte del Titanic.

Crescere è veramente difficile, lo è sempre stato, ma mi pare che a ogni generazione il coefficiente di difficoltà raddoppi. Perché sebbene ricordi gli ostacoli della mia adolescenza, posso dire che quel che mi ha dato in termini di maturità, nuove esperienze e amicizie è molto di più.
Eppure le ho avute anch'io le amiche d'infanzia perse per strada. Quelle della porta accanto, cresciute con me, con le quali si erano spartiti giochi, cibo e sonno che a un certo punto hanno ricevuto libertà a me non concesse. D'improvviso le ho perse. Ho sofferto, credo. Le ho rimpiazzate. E oggi conservo un bel ricordo della mia infanzia e ancor più bello della mia adolescenza.
Vorrei guardare al prossimo anno di Ieie con l'entusiasmo che merita, con la prospettiva che sarà ricco di bei cambiamenti, poi mi scruto attorno e in effetti ho paura. Perché forse è vero che il problema sono io. Io che frappongo le mie ansie materne alla sua meritata libertà. Io che lo costringo a essere accompagnato, quando invece potrebbe tranquillamente spostarsi da solo.
Io che lo tratto come un bambino di tre anni quando in effetti ne ha dieci.
Io che vorrei che guardasse il mondo con i suoi occhi e imparasse a farsi una (sua) opinione, anziché ipnotizzare corpo e mente davanti a uno schermo solo per fare quello che fanno tutti gli altri.
Perché il bisogno di sentirsi accettati, di essere uguali agli altri, è normale a quell'età. Ma qui mi sembra che il rischio sia un'omologazione senza precedenti.

E poi, un pomeriggio per caso, incontri una mamma di un'altra città di un'altra provincia. Suo figlio, che è un anno più grande, comincia a giocare col tuo e scopri che ha vissuto la stessa storia. Ha chiesto con insistenza di andare a scuola da solo, con la minaccia di smettere di studiare, perché i compagni lo prendevano in giro per il fatto di essere accompagnato dal papà. E' uno dei pochi in classe senza cellulare e per questo, a volte, resta escluso dagli incontri extra scolastici. Quando va in pizzeria con gli amici non sa cosa fare, perché gli altri passano il tempo giocando on line col telefono.
E allora, trovando un altro essere madre che la pensa come te, ti convinci che non sei proprio così strana. O forse siete strane in due.
O forse c'è una terza via.
Perché la stessa madre ti narra la disavventura della figlia decenne che un giorno è tornata dal campo scuola entusiasta perché delle bambine più grandi le avevano scattato bellissime foto col loro cellulare, invitando quindi la madre ad andarle a vedere. Figurarsi la sorpresa della mamma quando ha scoperto che le foto erano state caricate su un profilo Instagram aperto dalle ragazzine a nome della figlia, falsificandone la data di nascita. E il problema non era neanche quello, ma che in poche ore detto profilo avesse già raccolto dieci follower adulti di sesso maschile.
Allora forse, non sono matta o paranoica, ma semplicemente prudente, perché prima di buttare mio figlio in un mondo dove c'è chi è pronto a spolparlo come un ossicino, vorrei che fosse quantomeno preparato. E meno ingenuo di quanto sia adesso.
Che poi lo so che sul cellulare prima o poi cederò.
Ma, ecco, cederò a modo mio.

venerdì 19 luglio 2019

L'ombra del vento

Daniel Sempere ha solo dieci anni quando suo padre lo porta per la prima volta nel Cimitero dei libri dimenticati, un misterioso labirinto nel Raval di Barcellona, dove vengono custoditi i titoli che altrimenti nessuno ricorderebbe più.
E' così che il romanzo L'ombra del vento entra con la prepotenza della scrittura del suo autore, Juliàn Carax, nei pensieri di Daniel, determinando il corso della sua vita.
In cerca di notizie sul misterioso scrittore, Daniel conosce infatti il libraio Barcelò e la sua bella nipote Clara destinata a diventare il primo, sfortunato amore del ragazzo. 
Anni dopo, per colpa dello stesso romanzo, o meglio per salvarlo dalle mire di un inquietante individuo che punta a distruggere quell'unica copia superstite, Daniel si troverà a troncare ogni rapporto con Clara e a stringere amicizia con l'istrionico e fedele Firmìn.
Sarà proprio questo strambo e impareggiabile personaggio ad affiancare Daniel nella ricerca che più di tutto anima il cuore del giovane: scoprire chi era e che fine ha fatto Juliàn Carax e chi è l'uomo che vuole distruggerne tutte le opere.
In un viaggio che si snoda tra presente e passato, andando dai sottotetti fatiscenti di Parigi alle ville fantasmagoriche sulla salita del Tibidabo, Daniel e Firmìn incontreranno amici e conoscenti di Juliàn e cercheranno di ricostruire la sua triste storia come un puzzle dove tanti sono i pezzi mancanti e ancor di più quelli che non combaciano. Perché spesso le cose, e le persone, non sono quelle che sembrano.
Le risposte, non tutte inimmaginabili, arriveranno in una finale dove, dopo essere stato a lungo paragonato a Juliàn, le vite di Daniel e dello scrittore correranno su binari paralleli per poi allontanarsi per sempre.
Le ville sulla salita verso il Tibidabo
Diciassette anni dopo la sua pubblicazione e l'immenso successo seguito, sono riuscita finalmente a leggere L'ombra del vento. Un ritardo imputabile a un altro romanzo di Zafón, Il gioco dell'angelo, che aveva avuto il pregio di risucchiarmi in un groviglio di colpi di scena e in un aumento della tensione sfociati, però, in un finale decisamente incomprensibile. Scottata da cotanta delusione, ci ho messo un po' a decidermi a ridare fiducia a Zafón e alla sua trilogia del Cimitero dei libri dimenticati (L'ombra del vento è il primo di tre e anche Il gioco dell'angelo, che rappresenta una specie di prequel, ha dei punti di contatto con la serie).
Stavolta non sono rimasta delusa. L'ombra del vento ha saputo innanzitutto riportarmi in una città che ho avuto la fortuna di vedere più volte, Barcellona, anche se qui, anziché presentarsi nella sua veste allegra e colorata, la vediamo sfoggiare colori cupi, il grigio del mare autunnale, i cieli sfumati di ruggine, l'anima triste e smorta di una città appena uscita dagli orrori della guerra. Eppure basta un giro sul tram blu verso il Tibidabo o una passeggiata nella Barceloneta per riassaporarne l'anima più seducente.
Come se non bastasse, è un libro che parla di libri e dell'amore per essi giacché, come viene spesso ripetuto, i libri sono specchi in cui troviamo ciò che abbiamo dentro.
A questo si aggiunga una storia i cui personaggi son dipinti con poche, vivide pennellate e che ti si appiccica addosso con una scrittura dialogica che unisce le sfumature del racconto gotico a quelle del giallo, non senza una forte impennata emotiva proprio sul finale.
Un lettore attento e avvezzo al genere, secondo me riuscirà a risolvere alcuni misteri, tuttavia questo non toglierà fascino o pathos al racconto, tutt'altro.
Restano, alla fine, la soddisfazione per una conclusione degna e (stavolta) comprensibile e la voglia di tornare quanto prima a Barcellona nei posti che fanno da sfondo alle vite di Daniel e Juliàn.

L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón, Mondadori, traduzione di Lia Sezzi

Questo post partecipa al Venerdì del libro di HomeMadeMamma  

martedì 16 luglio 2019

Italia-Francia: quel che non ti aspetti varcando le Alpi

Una delle cose che mi piace fare di più quando vado all'estero, è guardarmi intorno e analizzare usi e costumi in voga nelle altre parti del mondo. Così facendo è naturale che scatti il confronto, ma ritengo di essere sufficientemente imparziale per non cadere nel solito cliché dell'italiano che disprezza il caffè straniero o ne rifiuta la cucina perché la pasta mica sanno cos'è o non si arrende all'idea che non troverà un bidet nel bagno manco a pagarlo oro. Cioè, non che alcuni di questi pensieri non mi sfiorino (specialmente sul caffè, ho delle teorie molto restrittive), ma sono dell'idea che quando vai a casa altrui non puoi pretendere di trovare le tue stesse abitudini. Tanto vale calarsi nella cultura che ti ospita e sperimentare.
Questo tipo di approccio mi ha permesso di evidenziare gli aspetti positivi che di volta in volta ho incontrato all'estero, prima di tutto il fatto che spesso le città straniere sono molto più pulite e ordinate delle nostre. Anche nella Loira, la gran parte dei villaggi (e città) si distinguevano per essere talmente impeccabili da parere finti.
Blois, tipico borgo della Loira
Ma, ordine a parte, ci sono stati altri aspetti che mi hanno fatto notare, con orgoglio, che anche noi italiani, su alcune cose, siamo più bravi.
1 - Che tu vada in un albergo o in una casa vacanza, in Francia nessuno ti chiederà un documento di identità. Puoi prenotare anche a nome di un noto terrorista, tanto non verranno a controllare. Oppure puoi essere un noto terrorista e prenotare a nome di Mario Rossi che forse è anche meglio. E se sei in fuga con dei bambini rapiti, un albergo in Francia è il posto migliore dove rifugiarti, perché non verificheranno mai che siano i tuoi figli.
In Italia questo non succede, e dopo tutti gli attentati che ci sono stati, non me l'aspettavo.
2 - Qualcuno dovrebbe dire ai francesi che nell'era di Booking &Co. lavorare nel turismo e avere una conoscenza elementare (nel senso uguale a quella di un bambino delle elementari), dell'inglese, non ti rende superiore, né fa grandeur, ma ti rende solo molto ignorante. E ridicolo. Soprattutto se un bambino di dieci anni si diverte a mettere in difficoltà i camerieri con un Can I have some bread please?.
Perché sarà pure vero che anche in Italia siamo lontani dagli standard di conoscenza dell'inglese del Nord Europa, però  devo ammettere che da parte di ristoranti e negozi nostrani ho visto un maggior impegno di quello riscontrato in Francia.
E poi, lasciatemelo dire, l'inglese va pronunciato all'inglese. Ché se mi sento dire che sono orlì a me mi viene da pensare all'aeroporto, mica che sono in anticipo.
3 - Qui non è questione di bidet, urge fare qualcosa, subito, per i bagni francesi. A parte che loro la chiamano salle des bains e sono dei buchi, ma il fatto che siano spesso senza finestre e aeratori e con i tubi del wc che corrono lungo i muri, li rende veramente inguardabili. Chiamate Andrea Castrignano, s'il vous plait.
Ma siccome ho detto che sono imparziale, bisogna dare a Cesare, o in questo caso forse è meglio dire a Vercingetorige quel che, va be' ci siamo capiti.
Se c'è una cosa che ho apprezzato tantissimo dei francesi è la loro scarsa dipendenza dagli smartphone. Vai a cena fuori e li vedi, adulti, ragazzi e bambini, che parlano e ridono tra di loro. I telefoni sono lì sul tavolo, ma nessuno, e dico nessuno, si isola in una bolla a spulciare lo schermo. Né mi è capitato di vedere pargoli intenti a mangiare sotto l'effetto ipnotico di You Tube. Andate in un qualsiasi locale italiano e ditemi se la scena è la stessa.
E aggiungo, tra l'altro, che a Clos Lucet ho analizzato tutte le scolaresche di età compresa tra gli undici e i tredici anni in gita nel parco e non ho visto un solo alunno, neanche per un minuto, armeggiare con un cellulare, neppure quando gli insegnanti li lasciavano girare in libertà. E il confronto con l'Italia stavolta lo risparmio proprio.
Il parco di Clos Lucet con le invenzioni di Leonardo a uso e consumo dei bambini
Ma, come si dice, tutto il mondo è paese e noi italiani, si sa, siamo quelli spaghettipizzamandolino e...mafia, in altre parole universalmente noti come furbacchioni matricolati. Ebbene, sappiatelo, i francesi non sono da meno.
Abbiamo prenotato gli alloggi per la nostra vacanza tramite Booking (e fin qui nulla di nuovo). A Tours, dove avevamo scelto un hotel, scopriamo che la nostra sistemazione è in realtà un albergo a conduzione familiare, in pratica una casa trasformata in albergo e gestita dai suoi proprietari e anche qui nulla di eclatante, poiché ho letto che questa pratica è abbastanza comune in Francia.
Ad accoglierci una signora di mezza età in un salottino/reception decorato con ritratti di famiglia, poltrone di legno e stoffa, mensole e ninnoli in una scena che mi fa pensare tanto a Miss Marple. Sarà che siamo italiani, e non si fida, ma prima di condurci alla camera ci chiede di saldare in anticipo le tre notti per la cifra pattuita al momento della prenotazione. Diamo una carta di credito, la inserisce nel Pos e ci dice che, purtroppo, non va, mostrandoci lo scontrino della mancata transazione. Stessa storia col bancomat, al che io e mio marito ci guardiamo perplessi perché quelle carte, poche ore prima, in autostrada, avevano funzionato, ma comunque risolviamo col contante.
Figurarsi la nostra sorpresa quando, tornati in Italia, mio marito controlla la posta elettronica e trova una mail con cui Booking, alcuni giorni prima, ci avvisava che l'albergo di Tours da noi prenotato, aveva modificato il prezzo pattuito tagliandolo di quasi il 50%.
Cos'era successo? La dolce vecchietta aveva inviato a Booking una richiesta di modifica del prezzo e, confidando che noi ne sapessimo nulla, ci ha fatto pagare l'importo per intero, in contanti, senza lasciarci uno straccio di ricevuta in modo da consegnare a Booking una percentuale più bassa.
Ecco, in tanti anni di viaggi con Booking, in Italia e fuori, una furbata come questa io non l'avevo mai vista e è proprio il caso di dire che, in materia di furbizia, pare proprio che  i cugini francesi abbiano qualcosa da insegnarci.


venerdì 12 luglio 2019

Flawed

Celestine North è una ragazza che tutti definirebbero per bene, per non dire perfetta. Carina, studiosa, educata, ligia al dovere e rispettosa delle regole, perché Celestine sa sempre distinguere tra giusto e sbagliato e se così non fosse non sarebbe tra i più strenui sostenitori della Gilda, il tribunale "morale" del suo Paese che ormai da decenni scova e sanziona i Flawed, ovvero i fallati, coloro che si sono macchiati di un reato etico e che per questo sono sottoposti a una serie di limitazioni e vanno in giro con una F marchiata a fuoco come monito per le persone per bene.
Eppure, sarà proprio il suo senso del dovere a tradirla e farla finire dall'altro lato della barricata, tra i fallati, e a niente varrà il fatto che uno dei giudici della Gilda, Bosco Crevan, sia il padre del suo fidanzato.
Intrappolata tra giochi di potere e trame politiche, Celestine diventerà un tragico capro espiatorio e sarà condannata dalla Gilda a una pena senza precedenti. Trattata come un'appestata, una paria della società, comprenderà quanto siano assurde le regole sulle quali fino a quel momento aveva riposto ogni fiducia e come sia labile, quasi inesistente, il confine tra perfetti e fallati. Ma capirà anche che il sistema messo su dalla Gilda non è così monolitico come appare e dovrà scegliere se continuare a essere se stessa o fare il gioco di chi vuole usarla a proprio vantaggio, seppur per demolire il sistema.
Tipico romanzo distopico, Flawed arriva da un'autrice assai prolifica, ma nuova al genere. Negli anni ho letto e apprezzato diversi romanzi di Cecelia Ahern (da uno, P.S. I love you, è stato tratto anche un film) e siccome il genere distopico mi intriga, sebbene la mia competenza si fermi ai classici (1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451), non ho avuto dubbi sulla scelta di questo titolo.
Devo dire che all'inizio ho stentato ad appassionarmi. L'ho preso e lasciato più e più volte, forse perché, da italiana, l'idea di una società dove vieni sanzionato e allontanato da tutti perché sei stato disonesto, o hai fatto cattive scelte o, peggio, hai rubato alla società, più che fantascienza mi sembrava comicità allo stato puro.
Una volta ingranata la lettura, però, il romanzo è ben congegnato, ha una trama accattivante, che funziona e che intriga al punto giusto da spingerti a leggere anche il secondo volume, Perfect, perché, sì, sappiatelo, con Flawed la storia è solo all'inizio e per capire come si conclude bisogna leggere il seguito.
Resta il fatto che tra i mondi distopici che ho avuto modo di attraversare, quello di Flawed è quello che mi incute meno paura forse perché, sempre da italiana, un po' di moralità in più non mi dispiacerebbe.
Ma non ditelo a Celestine North, probabilmente non sarebbe d'accordo.

Flawed di Cecelia Ahern, Harper Collins

Questo post partecipa al Venerdì del Libro di HomeMadeMamma

lunedì 1 luglio 2019

A ritroso nella storia tra i castelli della Loira

A guardarlo da quel che resta di quella magnificenza, lì nelle stanze semivuote di Versailles, il viaggio nei castelli della Loira è stato un percorso a ritroso nella storia della Francia e dei suoi re. Da Carlo VII, che grazie alla giovanissima Giovanna D'Arco trovò il coraggio di rivendicare il trono, come ci ricorda ogni pietra dell'elegante Orléans, al fiero Francesco I, il re nomade che transumava con la sua corte da una reggia all'altra, ad Amboise, dove aveva chiamato a sé il genio di Leonardo, alla "casina" di caccia di Chambord, il luogo ideale per liberare cinghiali tra la corte per poi stupirla con un dardo ben piantato;
Clos Lucet, la casa di Leonardo ad Amboise
come non ricordare poi sua nuora, Caterina de' Medici, madre di tre re, moglie di un Enrico (II) infedele a tal punto da donare un castello, Chenonceau, a Diana di Poitiers, sua amante, Caterina che, ripresasi Chenonceau alla morte del marito, lo trasformò in una reggia all'italiana, donna astuta e forte, come solo il suocero, che amava cavalcare con lei a Chambord, aveva capito.
Il castello di Chenonceau, naturale che Caterina lo volesse indietro
E poi Francesco II, ucciso diciassettenne da un'otite nelle stanze dell'hotel Groslot di Orléans, la guerra dei tre Enrichi, che a Blois trova il palcoscenico adatto a una serie di omicidi, fino al re Sole che pose fine all'epoca dei re itineranti con la maestosa Versailles, teatro dell'epilogo sanguinoso e infausto di questa monarchia, di cui le stanze delle sorelle Victoire e Adelaide, in quella solitudine da zitelle, lussuosa, ma priva della grandiosità e dello sfarzo delle camere del nipote Luigi XVI, sono il simbolo più significativo.
La stanza dell'hotel Groslot dove morì Francesco II. Pare che il medico avesse consigliato di praticare un foro sulla tempia, ma Caterina rispose che solo Dio poteva guardare nella testa del re
Sebbene non abbia seguito proprio quest'ordine cronologico, il viaggio nella Loira ha avuto comunque il pregio di farci assaporare le atmosfere e i fasti dei sovrani d'Oltralpe, portandoci da borghi medievali dai tetti a spiovente a cittadine dove le case a graticcio si alternano a piazze e viali dal gusto neoclassico.
Casa a graticcio a place de la Plumereau a Tours
E' una terra di pianure e campagne, la Loira, di boschi, prati e verde a profusione, innaffiato dal reticolo della Loira e dei suoi affluenti lungo i quali si snodano gli oltre 60 castelli che re, funzionari della corona e nobili, si fecero costruire nel corso dei secoli.
Il castello di Blois
Partiti da Chartres, le nostre aspettative si sono un po' spente, complice, forse, una cittadina che ci si è presentata praticamente deserta, perché mentre noi in Italia ancora dibattiamo su negozi aperti sì, negozi aperti no, lì il problema non se lo pongono proprio e di domenica son tutti chiusi, fatta eccezione per qualche sparuto bar e ristorante. Le piccole dimensioni del posto hanno fatto il resto e ci siamo sentiti un po' come Will Smith in Io sono leggenda, attimi di panico compresi quando abbiamo avuto la sensazione di essere seguiti. Peccato perché il paese è davvero carino, la cattedrale che ve lo dico a fare e fino a ottobre ogni sera i monumenti principali sono illuminati da uno spettacolo di luci e suoni davvero ben fatto. Anche lì, però, mi sarei aspettata un numero maggiore di spettatori. Eravamo perlopiù turisti, tanto che mi sono chiesta dove fossero e cosa facessero gli abitanti di Chartres.
La cattedrale di Chartres illuminata dallo spettacolo serale
Comunque il morale ci si è risollevato a Tours e Orléans, due splendide città un po' medievali un po' neoclassiche dove, per fortuna, la gente non ha perso il piacere di passeggiare.
Uno scorcio di place de Martroi a Orléans
D'altronde gli ampi viali costellati da vetrine e vetrine di negozi, la maggior parte dei quali NON sono delle solite catene che si incontrano ormai ovunque, alimentano il gusto di uscire e osservare, sebbene entrambe non abbiano grandi centri storici e siano comunque cittadine che viaggiano su poco più di 100.000 abitanti.
La cattedrale di Orléans
Da queste città ci siamo spostati in macchina per visitare i castelli, selezionando, ovviamente, quelli che ci interessavano di più. A parte le regge più famose, Chenonceau, Chambord, Blois e Amboise (anche se qui non abbiamo visitato il castello, ma solo Clos Lucet, la casa di Leonardo che, avendo una sezione dedicata alle sue invenzioni e un parco in cui alcune di queste sono "fruibili" dai bambini, è decisamente più adatta a chi ha figli), abbiamo scelto Villandry e Azay-le-Rideau che non hanno mai ospitato principi o re, ma dispongono, la prima, di un giardino spettacolare con un orto dalle aiuole variopinte e la seconda di un'atmosfera fiabesca, con quel maniero turrito adagiato sul fiume Indre e il fruscio placido delle piccole cascatelle che si diramano tutto intorno.
Una parte dei giardini di Villandry
Se proprio dovessi comprarmi un castello, credo che la mia scelta cadrebbe su Azay-le-Rideau
Sebbene i castelli siano tanti, non tutti sono visitabili, altri, immagino, meritano di meno, in ogni caso la scelta è d'obbligo, vuoi perché raggiungerli richiede tempo, vuoi per una questione, non trascurabile, di budget.
Il castello di Ussé l'abbiamo visto solo dall'esterno, pare che abbia ispirato a Perrault la fiaba della Bella addormentata
La nostra ultima tappa è stata Versailles. Avrei voluto che i bambini rimanessero affascinati dalla fastosità della reggia, dal corridoio pieno di specchi dell'omonima sala e dall'immensità dei suoi giardini. Dico avrei voluto, perché in realtà la tappa di Versailles è stata la più deludente. Rispetto a 30 anni fa, quando ci andai io, il turismo di massa ha trasformato lo stupore e l'ammirazione in un senso di spossatezza e di fastidio per le innumerevoli file che bisogna affrontare e per la quantità spropositata di gente con la quale condividere le sale.
Anche lo spettacolo delle fontane musicali ci ha lasciati perplessi. Di tutte quelle che ornano i giardini, solo tre effettivamente spruzzavano acqua a tempo di musica, le altre erano normalissime fontane con normalissimi getti fissi e, in sottofondo, un brano musicale. Insomma, come se andassimo nella piazza della nostra città e ne rimirassimo la fontana con un i-pod nelle orecchie. Non credo quindi che i bambini conserveranno grandi ricordi di questa reggia.
Un ultimo accenno al paesino dove abbiamo soggiornato la notte prima della partenza, che non citerò in quanto non ha nulla di particolare, ma che è stato scelto perché l'unico con una struttura nell'Ile-de-France dotata di prezzi abbordabili.
Azay-le-Rideau, tipico borgo della Loira
Dopo i borghi della Loira, tutti senza un filo d'erba fuori posto, con casette uscite direttamente da una pellicola della Disney, ornate di roseti da far invidia, prive di recinzioni e con finestre a piano terra ampie e senza grate, finalmente, probabilmente perché fuori dal circuito turistico, abbiamo trovato dei paesini "normali", con segni di trascuratezza, un marciapiede scalcinato, un'insegna scolorita, case ordinarie e piazze tristi e deprimenti, che ce li hanno fatti sentire vicini a tanti altri nostri paesi. Ah, e con le sbarre alle finestre del piano terra.
Perché saremo pure italiani, ma i francesi son pur sempre nostri cugini ;-)