sabato 30 luglio 2016

Una normale giornata d'estate

La mattina è il mare, l'acqua cristallina, il fondale selvaggio di scogli muschiati che ti raschiano i piedi.
Al calar del sole arrivano le biciclette, a mucchi. Col cestino o con gli adesivi, fucsia e superaccessoriate o scalcagnate eredità dai fratelli maggiori. Solide su quattro ruote o malferme su due.
Poi è tempo di un mago, che con i suoi inspiegabili trucchi intrattiene i più piccoli per un'ora. Piccoli sudaticci, assetati, ridenti e sdentati con i baffi di sugo e le mani unte di pizza.
Un porticato, il tepore incantato di luglio che ti fa dimenticare giacche e golfini, un po' di cozze comprate sulla strada del ritorno dal lavoro. Et voilà ecco una spaghettata, mentre i piccoli giocano e i grandi si lasciano andare ai ricordi. Quella che per cui si presero a botte. Il prepotente ante litteram che sceglieva le sue vittime e le tormentava, perché i bulli esistevano anche quando non sapevamo come chiamarli. L'amico che si fidanzò, in tempi diversi, con due sorelle. Ma sarà che Beautiful l'abbiamo inventato noi?
Tre smorfiosette che giocano a farsi i capelli; piccole canaglie che si inseguono urlando, l'ultima della fila ha ancora il pannolino; un bambino e una bambina quasi ottenni che si tormentano in continuazione lanciandosi sguardi tra divertiti e ammiccanti; la bimba col pannolino che se lo sfila annunciando "Pipì!".
Una pista da ballo sotto casa. Un dee jay che propone il meglio degli anni '90 per invogliare alle danze: decisamente non riusciamo a mostrare meno della nostra età. Un marito che chiude a casa la moglie, la figlia e il cane, per tornare a ballare senza rimbrotti. Ballare con la consapevolezza dei 39 anni, quando non  hai più paura di essere ridicola o di sfigurare e vuoi solo divertirti. Una moglie accigliata che si libera e ritorna sulla pista con l'aspetto di una banshee. E che poi si mette a ballare.
Una normale giornata d'estate.

mercoledì 27 luglio 2016

Sere d'estate

E' stato un inverno lungo e faticoso, fatto di imprevisti e momenti down e poi telefoni che trillano e che comunicano qualche gatta da pelare, al punto che non sopportavo più il suono del cellulare. Poi ogni tanto le cose sembravano migliorare, tiravi il fiato, pensavi che il peggio era passato e che forse si poteva guardare avanti con serenità quando, driiin, squilla il telefono e arrivano altri casini da risolvere.
Niente di grave, per carità, è che però a un certo punto ti chiedi se sarà sempre così. Se la maturità comporta un affastellarsi di responsabilità e grane. Un addormentarsi con un milione di pensieri in testa e risvegliarsi facendo l'elenco delle matasse quotidiane da sbrogliare.
Poi finalmente arriva l'estate e torni qui, al paesino. Il luogo dove posso ricucire le trame della mia vita, quello che con la sua costante presenza, estate dopo estate, mi ricongiunge col passato e diventa scenario di nuovi ricordi. La casa del paesino è la casa dove mi sembra di rincontrare mia nonna, l'unico posto dove ho vissuto con lei sotto lo stesso tetto. Il piacere che provo è condiviso dai miei figli, Ieie in particolare, entusiasti, a loro volta, di passare le vacanze al mare con i nonni materni.
L'altra sera, per dire, davano alla radio l'Estate sta finendo, dei Righeira, e Ieie si è rattristato nel sentirla. "Mi sembra che uccida il paesino", ha detto.
E così siamo di nuovo qui. Queste estati tutte uguali, si fa per dire, possono sembrare noiose, ma a me e mio figlio, di indole conservatrice, piace così. Il paesino ha perso molto del suo fascino, complice un mega porto che se l'è sbranato sputando una carcassa che è solo il pallido fantasma di quel che era. Ma tant'è, io e i miei amici ci siamo affezionati e ci torniamo con piacere. Perché qui, in questo isolamento fuori dal mondo, tiriamo un po' il fiato dalle fatiche che, con carico minore o maggiore, tutti dobbiamo sopportare e riscopriamo la gioia delle lunghe estati insieme da ragazzi.
Quest'anno, poi, ricorrono trent'anni da quando conobbi le prime amiche. Fu il mio cane a fungere da "gancio". La più piccola di noi aveva appena sei anni, era in procinto di inizare le elementari e, sedute davanti a casa di sua nonna, in quei pomeriggi lontani nel tempo, le suggerivo parole bisillabiche che lei provava a scrivere in stampatello.
Eppure sembra ieri. Adesso, come trent'anni fa, è la Lolla che deve fare il suo ingresso alla primaria. Qualche sera fa la guardavo giocare con i figli di quelle mie amiche incontrate tramite un cane. Facevano i nostri stessi giochi, in quello stesso posto, lo spiazzo della locale Lega Navale, dove ci rincorrevamo noi. 
Non mi sono comossa. Non ho pensato a niente. Li ho guardati giocare e poi sono tornata a parlare e mangiare con le vecchie amiche, come ho fatto in tutti questi anni. Forse è questa la continuità che dà un senso alla maturità.

lunedì 25 luglio 2016

Briciole al tempo

Non ricordo bene come è iniziata. Era la prima media e io avevo fatto gruppetto con alcune bambine conosciute da poco, sentendomi accusare di tradimento dalle vecchie compagne delle elementari che erano ancora in classe con me. Lei occupava il banco dietro al mio, con i suoi voluminosi capelli ricci che era costretta a legare per non ostacolare la visuale ai compagni delle file posteriori.
In un modo o nell'altro dovemmo trovarci simpatiche, sentire, annusare, una certa affinità, perché un giorno mi invitò a casa sua. Ricordo esattamente che appena entrata, dall'ingresso scorsi la sua camera con un castello rosa fatto di costruzioni e alcuni gattini di ceramica che troneggiavano su una mensola. Quella casa mi pacque subito, e mi piacque la sua giovanissima mamma che sapevo aver vissuto all'estero e bilingue. Era simpatico anche il suo papà che giocava a nascondino con noi.
Fu l'inizio di una bellissima amicizia. Lei fu la prima amica che non era più solo una compagna di giochi, ma una confidente di quell'età meravigliosa e strana che è l'adolescenza. Cantavamo le canzoni di Sanremo leggendole da Tv Sorrisi e Canzoni, giocavamo in casa a pallavolo, sport di cui entrambe eravamo appassionate, lasciandoci dietro danni ancora visibili. Ma soprattutto facevamo lunghissime chiacchierate quando ci sembrava che solo in quello scambio reciproco potevamo trovare comprensione.
Furono due anni bellissimi. Poi un cambio di lavoro la portò via, in una città a oltre 800 chilometri. Tra le lacrime ci giurammo eterna amicizia.
Da qualche parte ho ancora il quadernone viola con lo scoiattolo su cui 28 anni fa scrisse l'indirizzo di casa sua, e la precisazione "portone verde scrostato" perché non avessi problemi a trovarlo. Ieri ci siamo riviste. Anche quest'anno, approfittando di una momentanea vicinanza, macinando qualche chilometro e rubando un po' di tempo alle ferie, agli impegni familiari e alla stanchezza, siamo riuscite a organizzare un breve incontro, un pranzo fuori con le nostre famiglie per vederci e aggiornarci, e ribadire che a dispetto del tempo che passa siamo ancora buone amiche.
Ed è stato bello scoprire che il desiderio di ritrovarsi era reciproco, nonostante per qualcuno in una domenica di luglio con temperature oltre i 30°, sarebbe più opportuno andare al mare .
Ma la verità è che adesso che il giro di boa dei quaranta si avvicina, non mi sembra più di avere davanti tutto il tempo del mondo, di poter recuperare i minuti che non si sono passati insieme e di poter riavvicinare gli amici che avevo accanto. Adesso più che mai so che quelle lacrime che versai quando lei se ne andò, erano quanto di più vero poteva esserci. La mia amica sarebbe andata via per sempre e quei lunghi pomeriggi insieme non ci sarebbero stati più. 
E allora se bisogna rubare briciole al tempo, in due si fa meno fatica.

lunedì 18 luglio 2016

Rayuela, Il gioco del mondo

Ci sono libri che divori con passione, e quando li hai finiti quasi ci rimani male perché non ti faranno più compagnia e allora puoi solo sfogliarli di nuovo alla ricerca delle emozioni vissute.
Ce ne sono altri che sono come l'idea di una scalata a piedi, sotto la tormenta, mentre sei lì alle pendici che guardi il monte: pensi che non ce la farai mai, a ogni passo misuri il percorso e, giunto alla fine, quando si chiude davanti ai tuoi occhi la quarta di copertina, non sei soddisfatto o felice, ma solo incredulo, e non vedi l'ora di passare ad altro.
A me è successo dopo due mesi dedicati a Rayuela, Il gioco del mondo. E dire che la descrizione della persona che me l'aveva consigliato mi aveva intrigato non poco. Il libro si legge in due modi. Il primo prevede un percorso lineare, capitolo per capitolo, il secondo avviene secondo uno schema fissato dell'autore.
Chissà perché, ma io avevo immaginato che ci fossero due storie. In realtà la vicenda è sempre la stessa, ovvero la storia del quarentenne argentino Horacio Oliveira che a Parigi vive una vita vagabonda, senza meta e senza lavoro. Le sue giornate trascorrono tra incontri con amici artisti o pseudo tali, fumate, bevute, riflessioni a gò-gò e in compagnia di Lucia, soprannominata la Maga, giovane uruguayana molto meno intelligente e brillante di lui. Infatti Horacio si premura di ricordarle, e di ricordarsi, che non la ama e, a un certo punto, quando lei è costretta a prendere in casa con loro il figlio avuto da una precedente relazione, decide anche di lasciarla, perché è evidente che la loro storia è finita e che lei ama un altro (tesi di Horacio). In realtà sarà la Maga, in seguito a una serie di vicende, ad uscire di scena, lasciando Horacio solo e incerto sul da farsi. Deciderà infine di far rotta verso Buenos Aires dove scombinerà la vita all'amico Traveler. Seguiranno un lavoro al  circo, in un manicomio e altri nonsense, intervallati da visioni della Maga che Horacio crederà di riconoscere in altre donne.
Detto così potrà sembrare avere una sua logica, ma io veramente ho fatto molta fatica a comprendere il senso del libro. E se alla seconda lettura l'inserimento di nuovi capitoli almeno chiarisce alcune situazioni che all'inizio sono solo abbozzate, la sensazione è comunque quella di trovarsi su una trottola che gira o in un labirinto senza uscita, disorientati da riflessioni simili ai flussi di coscienza dell'Ulisse di Joyce, da frasi lunghissime di cui si perde il filo, da intermezzi fuori luogo come stralci di articoli di giornale e testi di un fantomatico scrittore chiamato Morelli che secondo alcuni rappresenterebbe l'autore, Julio Cortàzar.
Eppure le recensioni di Rayuela, sia dei critici che dei lettori, sono un profluvio di lodi. Rayuela è "geniale", la seconda lettura è fitta di "sottotesti e sottotesti dei sottotesti", il romanzo è un compendio di conoscenze. Ora, per carità, Cortàzar ha sicuramente una cultura enciclopedica ed io ho colto solo una minima parte delle citazioni argute e delle metafore in cui il racconto è annegato. E' anche vero che rileggerlo aiuta a orientarsi meglio nel groviglio dell'intreccio e che forse servirebbe dedicargli molto più tempo e attenzione (di più?). Ma, al di là di tutto, mi chiedo se sono stata l'unica capra a non capirlo. Che ha provato un malessere, un senso di spaesamento, come se stessi facendo una gran fatica per niente. Come se mi trovassi davanti a uno sfoggio di bravura che però, a me, lasciava ben poco.

Rayuela, Il gioco del mondo, di Julio Cortàzar, Einaudi, traduzione di Irene Buonafalce

giovedì 7 luglio 2016

Valencia

Valencia è il blu dell'acqua. Del mare, del lago dell'Albufera e delle numerose vasche e fontane che punteggiano la città regalandole frescura, gite in barca e giochi.

Valencia è verde. Verde come le sue piazze dai prati lucidi e ordinati. Verde come i viali ornati di palme, le risaie e gli immensi giardini del Tùria che la tagliano a metà regalandole un paradiso in pieno centro.
Valencia è il bianco della Città delle Arti e della Scienza che con le sue linee avveniristiche fatte di curve, pieni e vuoti, sospensioni e tagli netti ci fa sognare la città del futuro. Città dove il "vecchio" è curato e amato, ma non impedisce la crescita armoniosa del nuovo.
Valencia è colorata. E' il rosso dei garofani in plaza della Reina e sul ponte dei Fiori (meraviglioso, io ci abiterei). I mosaici variopinti della stazione del Nord e le vetrate liberty del Mercado central. E' il rame delle cupole che si accendono al tramonto; i colori pastello delle facciate dei palazzi ottocenteschi, le nuance perlacee degli stucchi, le tinte accese delle ceramiche che rendono queste costruzioni quadri da ammirare col naso piacevolmente all'insù.
Valencia è traffico. Ma senza ingorghi e parcheggi in doppia fila. E' la sua gente sorridente e disponibile che se ti vede in difficoltà si avvicina per chiederti se hai bisogno d'aiuto. Sono i suoi operatori turistici che ti trattano come un cliente da accontentare, e non da spellare. E' il profumo speziato della paella, la dolcezza rinfrescante dell'orchata, gli ortaggi che troneggiano giganti sui banchi del mercato. Sono le piste ciclabili con tanto di semafori; i cani che non vanno "in bagno" dove camminano le persone, ma in spazi appositi; la spiaggia libera, pulita e dotata di fontanelle; i parchi giochi che, puliti e funzionanti, spuntano come funghi in ogni aiuola, perché Valencia ama i bambini.
Valencia è anche la periferia dall'aria povera e dimessa. Qui non troverai boutique di Louis Vuitton o palazzi di lusso, ma non ti imbatterai nemmeno in erbacce ad altezza d'uomo, marciapiedi divelti o mezzi pubblici latitanti.
Perché Valencia è pensata per viverci, è in funzione dei cittadini, siano essi ricchi residenti del centro o squattrinati studenti di periferia. Forse per questo, ogni opera realizzata, da uno scivolo al restauro di un monumento, reca fieramente il timbro di chi l'ha finanziata, la Generalitat valenciana.
Valencia, con quasi 800mila abitanti, è la terza città della Spagna, un Paese che economicamente non è che se la passi benissimo. E però qui, vai a capire perché, "non ci sono soldi" non è la frase di rito per giustificare un degrado dilagante.