venerdì 27 novembre 2015

A colloquio

Tu pensi che sia estroversa, che giochi e parli con gli altri bambini libera dalle timidezze che caratterizzano la sua famiglia. Perché lei è una che chiacchiera sempre. E ti racconta cosa ha fatto alla materna con i compagni di scuola. Perché, quando aspettiamo Ieie all'uscita dalla primaria, se c'è qualche amichetto lo raggiunge a giocare, prima ancora che la chiamino festosi per invitarla a unirsi a loro. Perché, guai a perdersi un compleanno, lei è sempre in prima linea.
Poi scopri che si è aperta molto (Davvero, rispetto a quando?), anche se mantiene un carattere più riservato rispetto agli altri compagni.
Per te è la piccola di casa, con la voce da Masha e il dito in bocca, una bambolina in mezzo al resto dei bambini, un pupazzetto in cerca di coccole. Imprigionata nel suo ruolo di figlia piccola, così come il fratello maggiore è costretto ad essere il bambino grande da quando aveva due anni.
Invece ti dicono che è cresciuta, molto, e si vede. Qualcuno, non ricordi nemmeno chi, suggerisce che, benché sia la più piccola della classe, la differenza con i compagni non si noti.
A te racconta di un compagno nuovo, è il mio fidanzato, aggiunge orgogliosa, e quanto più la mamma l'ammonisce di smetterla, tanto più lei lo ripete. M. ha fatto questo, M. ha fatto quello. Sai che mi dice M.? E P.? domandi. Il famoso P., amichetto speciale dal primo anno che fine ha fatto? E' cattivo, risponde, mi tratta male. Bé, se la tratta male.
Sì, però poi salta fuori che lei e P. siedono accanto, si danno coraggio l'uno con l'altra, sono gli stessi amici di sempre. Forse, M., che ha una carattere esuberante e aperto, esercita un certo fascino. Chissà.
Dai colloqui con le maestre emergono sempre i figli che non ti aspetti. Tu li vedi in un certo modo, ti fai un'idea di loro, ma poi chi li osserva vivere la loro vita fuori dalla famiglia, ti restituisce un'immagine diversa da quella che, come genitore, avevi costruito.
Con la Lolla, poi, il gioco è scontato. Troppo diversa da me perché io possa districarmi nella matassa del suo io. Non è come Ieie, che mi riflette nei gusti, nel carattere, nel relazionarsi con gli amici, nel modo di pensare e persino nelle fissazioni. Lui è me, solo declinato al maschile, e a volte lo capisco talmente bene che mi sembra di essere nella sua testa e di leggergli nel pensiero.
Ma lei è un libro da decifrare, una strada da percorrere, un racconto sconnesso (come quelli che spesso fa) da seguire, oppure no. E' un punto interrogativo, il più grande a cui debba rispondere.
Da chi mai avrà preso?

martedì 17 novembre 2015

Lo spazio bianco

Mio figlio è nato prematuro. Per una placenta previa che a 30 settimane e 3 giorni ha dato forfait e costretto me a un cesareo d'urgenza e lui a quasi due mesi di Utin. Non è una cosa di cui parlo spesso, almeno adesso. Prima no, mi snocciolavo in testa tutta la storia per giustificare, a me e agli altri, il fatto che fosse più piccolo dei neonati della sua età, il fatto che tardasse a stare seduto e a camminare.
Poi a un certo punto non ci ho pensato più. E non solo perché le lacune erano state colmate, ma soprattutto perché non avevo più il diritto di rivangare questa storia.  Mio figlio ce l'ha fatta, tanti altri bimbi che entrano in Utin non ne escono più, come posso, allora, lamentarmi per non aver portato a termine la gravidanza?
Eppure quel ricordo di fili, allarmi e incubatrici ogni tanto fa capolino. Ogni volta che Ieie ha qualche difficoltà mi chiedo "E se, invece?". Ma sono domande che non avranno mai risposta.
Fu forse per questo, per quelle domande che rimarranno disattese, che pochi mesi dopo la nascita di Ieie andai a vedere al cinema Lo spazio bianco, il film di Francesca Comencini tratto dall'omonimo romanzo, che narra proprio la storia di una madre single alle prese con una gravidanza prematura e con i dubbi tipici di questa esperienza, "Il fatto è che mia figlia (...) stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene: per quaranta giorni è stato come nominare la stessa condizione".
Cercavo empatia, e cercavo risposte. Il film mi piacque, ma in verità a quel tarlo che mi mordeva dentro non seppe rispondere. E così che adesso, sedimentati i ricordi, ho deciso di leggere i libro di Valeria Parrella, per cercare quel qualcosa in più che mancava al film.
La storia è la stessa. Maria, una "primipara attempata" (definizione che mi sono beccata anch'io alla mia prima gravidanza a 31 anni) di 42 anni, sola, partorisce prematuramente la sua bimba, Irene, e da lì comincia il calvario dell'andirivieni al reparto di Terapia intensiva neonatale. la routine di lavaggi e camici sterili, il trovarsi fianco a fianco con altre madri i cui bimbi dormono accanto al proprio in attesa di remoti progressi. Maria viene risucchiata in una nuvola di nebbia da dove il mondo esterno, con i suoi impegni, gli amici, la routine, assume sfumature incerte, per non  apparire più come prima.
Mi sono buttata a capofitto nella lettura, stupita dalla bravura della Parrella che, non so se ci sia passata, ma ha dipinto alla perfezione come si sente una madre con un figlio prigioniero delle macchine e del reparto, un reparto a cui devi tutto, ma in cui non riesci a sentirti a casa.
Ho amato la prima parte del libro, ma a un certo punto mi sono sentita spiazzata, perché la storia vira e si arricchisce di altri elementi. Il passato della protagonista, la scuola serale dove lavora e soprattutto la città di Napoli. Ci sono poi dei passaggi che ho sentito estranei. L'invidia per i progressi degli altri bimbi ricoverati, l'insofferenza per le visite domenicali concesse ai parenti, no io tutto questo, nonostante la depressione che mi avvinghiava, non l'ho provato e non l'ho trovato nemmeno nelle altre madri. Anzi, ho visto molta più solidarietà là dentro che in altri posti.
Devo essere sincera, alla fine mi sono un po' persa e sentita tradita, probabilmente perché avevo delle aspettative che non sono state del tutto soddisfatte. Mi aspettavo un racconto solo sull'Utin, ma così non è. Lo spazio bianco è la storia di una vita che viene stravolta dalle circostanze, ma è anche una storia di Napoli, una Napoli ripresa nei suoi scorci più squallidi, ma inaspettatamente piena e luminosa di vita.
Alla fine, anche dalla lettura sono emersa con un senso di incompiutezza. Ancora mi mancava qualcosa che nemmeno il libro era riuscito a darmi. Un senso, una spiegazione a questa, alla mia vicenda. Ma forse la verità è che ho posto la più classica delle domande che affligge chi è colpito dal dolore, a chi dopotutto non è tenuto a darmi una risposta.
Perché a me? Perché a mio figlio?

Lo spazio bianco, Valeria Parrella, Einaudi

sabato 14 novembre 2015

Momenti

Quell'11 settembre di quattordici anni fa ero una neolaureata. Sedevo al computer della mia cameretta stilando curriculum e pensando al test del giorno successivo, quando la radio raccontò di un aereo, anzi due, che si infilavano nelle Torri gemelle. Corsi a svegliare mia madre. Poi accesi il telegiornale.
Per molto tempo un sogno ricorrente turbò le mie notti. Ero al paesello, mi tuffavo nelle acque cristalline del mio mare che rivelavano tutto lo splendore dei fondali prima che il porto ne facesse scempio. Ridevo e scherzavo con gli amici di una vita quando un aereo, enorme, improvviso, si schiantava nell'acqua trasparente. E io correvo tra gli scogli cercando di lasciare più spazio possibile tra me e quel mostro.
In quel periodo la sorella seienne di una mia amica, pur non capendo esattamente cosa fosse successo, scoppiava a piangere ogni volta che la tv riproponeva l'immagine di Bin Laden.

Stavo facendo colazione prima di prepararmi per il lavoro, rincantucciata sulla sedia, la schiena poggiata al muro e una tazza in mano, quando quell'11 marzo il quattordici pollici a tubo catodico della cucina di Roma mi rovesciò addosso le immagini della stazione di Atocha. Patricia tenia 6 meses, un cartello vibrante di indignazione che ricordava la vittima più piccola dell'attentato, s'incuneò nei miei ricordi con uno strascico di dolore indicibile.

Un anno dopo ero appena entrata in ufficio e cercavo affannosamente di reperire notizie sulle bombe scoppiate a Londra da un pc capriccioso che faceva le bizze per accendersi. Dovevo essere già un po' assuefatta a tutto quell'orrore, perché ben poco, a quel punto, si tatuò nella mia mente.

Ieri sera stavo guardando un film su Marylin Monroe, stupita di scoprire che la diva tramandata ai posteri come bella e bionda, nonostante le sue fragilità fosse anche frizzante e simpatica. E intelligente. E' stato allora che un'edizione del Tg ha interrotto la trasmissione e ho sperato che non fosse per qualcosa di tragico. Fai che abbiano catturato un superlatitante, che abbiano liberato un prigioniero. Va bene anche un crollo generalizzato delle borse o la caduta del Governo e lo scioglimento concomitante del Parlamento, ho pensato.
Ci sono momenti della vita che rimangono impressi per sempre. Anche da vecchia, la fotografia perfetta di quell'istante si riproporrà davanti ai tuoi occhi in tutti i suoi minimi particolari. Che tu sia stata in ciabatte o elegante e ben vestita, nolente o volente quel momento entrerà così com'è nel bagagliaio della memoria.
Ma la verità è che vorresti ricordarti di quando hai guardato per la prima volta i tuoi figli negli occhi. Di quando un'amica ti ha confidato emozionata di portare in grembo un bambino tanto atteso. Di una cena organizzata per annunciare un matrimonio. Vorrai ricordarti della laurea di tuo figlio. Di tua figlia che ti racconterà, emozionata, che stai per diventare nonna. E sarai pronta a portarti addosso la memoria di una tromba d'aria che ti ha messo paura, di nubi umide che si addensano su di te prima di un temporale, di un'alba dal tetto di casa dopo una notte di bagordi o di lacrime irrefrenabili versate a letto per un amore finito. 
Sono stanca di fermare nei ricordi istanti banali della mia vita, promossi al rango di immortalità solo perché squarciati da notizie di bombe, attentati e carneficine. Non è questo che voglio portare con me nell'età matura.

Ero in ferie al paesello quando un maledetto commando prese in ostaggio dei bambini nel loro primo giorno di scuola, a Beslan, una cittadina sconosciuta dell'Ossezia del Nord. Ero già al lavoro quando, tre giorni dopo, i giornali riportavano l'esito del blitz ordinato da Mosca per liberare i prigionieri. Il gigante e Aliona. Una foto con la sua didascalia si depositò tra gli altri ricordi di quel massacro. Un militare enorme che usciva dalla scuola portando in braccio una bambina di circa un anno. Una bimba dal viso angelico, bellissima. E viva.
Chissà se almeno Aliona, che era così piccola e che di quei giorni avrà capito ben poco, è stata preservata dalla dittatura dei ricordi.

giovedì 12 novembre 2015

Amo avere una mamma

Nei giorni scorsi, "approfittando" dei suoi malanni, la Lolla è rimasta a casa con la mamma, mentre Ieie e il papà presenziavano a una cena di famiglia. E' stato un momento raro, in cui ha avuto l'esclusiva delle attenzioni materne. Lei, che da sempre ha dovuto condividermi col fratello, quando addirittura non veniva messa da parte perché i giochi scelti erano troppo difficili per la sua età. Lei che, per questo, è bravissima ad autointrattenersi e poco propensa a chiedere la mia compagnia.
E' stato, soprattutto, un momento bellissimo per entrambe in cui, aldilà del sentirsi figlia unica, ha potuto scoprire che ci sono cose, finora mai sperimentate, che si possono chiedere, e ottenere, e dai risvolti estremamente divertenti.
-Far finta di avere una mamma-bimba, e imboccarla con frittate improbabili multicolore al gusto di muccio, cacca e altri ingredienti rivoltanti che fan fare tante smorfie alla mamma.
-Saltare e ballare sul tappeto ridendo come matte, al suono di "Si viene e si va" di Ligabue.
-Curare, coccolare e mettere a nanna Cicciobello. Insieme.
E poi, buttarsi al collo della sottoscritta, e dirle "Io amo avere una mamma".
Che, di questi tempi, è già qualcosa.
Basta che tra qualche anno, quando cadrà la lente di perfezione con cui nell'infanzia guardiamo ai nostri genitori, non cambi idea e non desideri vedermi fuori dalla sua vita.

mercoledì 4 novembre 2015

Circoli viziosi

Anni fa, un bel po' di anni fa, c'era un film in cui un uomo al risveglio riviveva ogni volta la stessa giornata. Non lo vidi, me lo raccontarono solamente, e tanto bastò a tenermene lontana perché l'idea di un futuro sempre uguale a se stesso mi rendeva ansiosa.
Ecco quindi che nell'ultimo mese, come su un ottovolante dal quale è impossibile scendere, mi sono ritrovata a rivivere sempre gli stessi problemi chiedendomi se, e quando, sarebbe stato possibile scendere.
Abbiamo tirato fuori il termometro dal cassetto e, come sempre succede quando riemerge dopo il letargo estivo, non l'abbiamo più rimesso a posto. Che dire, con due bambini dovrei esserci abituata, ma purtroppo da due anni a questa parte il termometro rispunta sempre prima, il che significa che passo buona parte della mia vita reclusa a casa a far sempre le stesse cose, come l'uomo del film, programmando come sbrigare tutti gli arretrati non appena ci sarà profumo di guarigione, per poi smaltirli con frenetica ossessione.
Ottobre è stato anche il mese dei risvegli, sì quelli di mio figlio che, con una certa costanza, ha ripreso ad alzarsi la notte per motivi imprecisati. Ci viene a chiamare, quando va bene solo una volta, e se proprio vuole darti una spiegazione ti dice che non riesce a dormire, altrimenti ti guarda muto, cosa che alle tre del mattino non ti rende proprio felice. La situazione spesso degenera quando il padre fa il turno di notte, allora, in certi casi, è stato capace di rimanere sveglio tutta la notte.
Mi sento dire che è colpa mia, che non so rassicurarlo, che lo carico di ansia e lui si agita ancora di più. Io cerco di mantenermi calma, però, ecco, mi è capitato di farlo dormire a letto con me e di essere svegliata ogni ora al solo scopo di verificare che non me ne fossi andata. Allora, che dire, io non ce la faccio a rimanere calma.
Un po' perché sono preoccupata e mi chiedo se non ci sia qualche problema, se non sia il caso di rivolgermi a uno specialista, un po' perché ultimamente mi sento uno straccio e mi capita di poggiare la testa e di cadere in coma. Addormentarsi mentre dal parrucchiere ti lavano i capelli non è il massimo. Specie alla mia età. A me, poi, il non dormire mi mette di cattivo umore, vedo tutto nero e mi sento il cervello offuscato, le forze che vengono meno e non ho voglia di fare un bel niente, neanche ciò che mi piace. Sono uno zombie, ecco.
La ciliegina sulla torta, poi, è stato un tubo otturato con cui le mie affittuarie mi hanno torturato con cadenza quindicinale, sempre all'ora di cena poi, giusto per strozzarmi il boccone in gola.
Mi chiedo quando tutto questo finirà, perché a volte ho la sensazione di essere in una trappola, una specie di supplizio di Sisifo: quando i problemi paiono risolti e le cose volgono al meglio, è proprio allora che sono in allerta a chiedermi quando il masso rotolerà giù di nuovo.