Se c'è una cosa che, nonostante l'età che avanza, è rimasta uguale rispetto alla mia adolescenza, è quel senso di malinconica che mi assale quando arriva il momento di lasciare la casa al paesino. Ricordo esattamente cosa feci un anno fa nella stessa occasione - come trascorsi la serata, le cose che scrissi su whatsapp - come se fosse successo ieri, e questo è senza dubbio un segno inequivocabile dell'età (Mi hanno detto, riferiva giorni fa il barbiere del paesino, che dopo i cinquant'anni gli anni volano, meno male che non ci sono ancora arrivato!), perciò non riesco a raccapezzarmi che questa estate così strana sia già finita.
Come ogni anni arrivo nella vecchia casa che ha accolto tante generazioni della mia famiglia, quasi controvoglia. Ci sono le valigie da disfare, nuovi ritmi e spazi a cui abituarsi, letti vecchi e cigolanti e bisogna fare a meno di tanti comfort.
Tempo due giorni e ti sembra di stare qui da sempre. Soprattutto ti accorgi di quante cose puoi fare a meno senza sentirne la mancanza. In primis i negozi. A parte i beni di prima necessità, qui non c'è niente da comprare, e questo è un toccasana per il corpo e lo spirito, al punto che consiglierei una villeggiatura al paesino a tutti coloro che sono drogati di shopping. Ne gioverebbero.
Quel che invece non manca, e che adesso mi dispiace abbandonare, è la vicinanza, geografica e metrica, con tanti amici e avere un po' di quotidianità con i miei genitori. Basta uscire di casa, affacciarsi nel cortile affianco o sugli scogli poco distanti, per trovare un volto noto, un compagno di giochi per i bambini, una voce amica con cui scambiare quattro chiacchiere. E va bene che d'inverno viviamo più o meno tutti nella stessa provincia, ma non è la stessa cosa. Bisogna fissare appuntamenti, incastrare impegni, lottare contro gli imprevisti dei virus stagionali e alla fine passano settimane prima di riuscire a vedersi.
Anche per i bambini l'addio al paesino diventa ogni anno più triste. Perché devono rinunciare ad avere amici sempre disponibili per giocare, ai nonni che vivono sotto il loro stesso tetto, alla libertà dagli orari e alle uscite frequenti. Ma anche perché cominciano a crescere e, come la mamma, ripartono con un bagaglio di ricordi difficile da gestire.
La verità è che qui, né io né i bambini, ci sentiamo mai soli. Ed è difficile rinunciare a questo.
Ma, arrivata la fine dell'estate, l'aspetto che più di tutti mi strugge fino a far male, è il momento di fare i bagagli per lasciare la vecchia casa di famiglia, quella casa dove, in 39 anni, non ho mai mancato di trascorrere (anche per poco) la mia estate. Non è lo stress delle valigie, l'ansia di dimenticarmi qualcosa o la fatica di caricare la macchina che mi preoccupano. No, è vedere sparire sassolini e conchiglie rubati alla spiaggia, giochini trovati nelle patatine o comprati alla festa del paese, è il disordine giocoso dei bambini che con un colpo di spugna va via togliendo vita alla casa. Sono i mobili che si svuotano, i divani che vengono coperti con vecchie lenzuola, la biancheria che ritorna, profumata, negli armadi, le sedie da giardino coricate in cucina. E' la casa che si appresta al lungo letargo invernale e che con i suoi quadri e ninnoli sembra salutarti mestamente e darti, fiduciosa, appuntamento al prossimo anno.
E' stupido, ma la verità è che quella che stai salutando è la te stessa di oggi, dell'anno appena trascorso, e non sai come sarà la donna che tornerà qui la prossima estate.
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